SpecialiIl mondo che resta: sopravvivere alla catastrofe

The Leftovers e Watchmen raccontano due mondi costretti loro malgrado a fare i conti con un evento improvviso che li scaraventa nella tragedia: Damon Lindelof, produttore di entrambi, trasforma le voci di quelle storie in un'enciclopedia dei tipi umani oggi più vicina che mai.

The most terrifying fact about the universe is not that it is hostile but that it is indifferent.

Intervistato nel 1968 dalla rivista Playboy, Stanley Kubrick cercava di rendere a parole il nucleo del suo film più ambizioso, dove le parole avevano per l’appunto poco spazio, lasciando un vuoto d’interpretazioni che le immagini e l’immaginazione avrebbero dovuto sopperire. L’indifferenza del cosmo, d’altronde, è sempre stata al centro delle riflessioni più profonde degli uomini, tanto che i greci gli diedero quel nome proprio per indicarne l’inquietante ma bellissima armonia che non aveva risposta.

Il silenzio dell’universo torna prepotente a far rumore quando la tragedia irrompe nella quotidianità, sconvolgendo quel nostro piccolo cosmo, l’ordine armonico dei nostri giorni. Sono queste settimane, questi mesi, ormai passati in quarantena mentre il nostro mondo viene sconvolto, a suscitare in noi gli interrogativi più angoscianti. Domande che possiamo ritrovare, trasposte sul piccolo schermo, nelle opere più recenti di Damon Lindelof, produttore e scrittore statunitense che ha firmato tre capolavori della televisione contemporanea: LostThe Leftovers Watchmen

Sul primo prodotto sono state spese innumerevoli parole, di lode e di critica, e non verrà qui trattato perché nonostante la coerenza artistica (non scontata e tanto rigida quanto affascinante) che lo lega alle altre due opere, la narrazione manca della dimensione globale che invece nel resto è presente e ne è il fulcro. The LeftoversWatchmen per quanto differenti nel genere e nello stile prendono il via dal medesimo punto di partenza: un improvviso evento catastrofico che cambia completamente la vita del nostro pianeta; nel caso di Leftovers da un momento all’altro il 2% dell’intera popolazione mondiale si è volatilizzato senza lasciare traccia, mentre in Watchmen un gigantesco alieno è apparso a New York City uccidendo tre milioni di persone, cambiando il corso della storia mondiale per come la conosciamo.

Tanto diverse quanto simili, entrambe le serie TV evidenziano la firma tipica di Lindelof, che fa delle reazioni dei personaggi a queste catastrofi il nucleo fondamentale della narrazione.

Le loro domande diventano le nostre, oggi più che mai; le loro risposte agli eventi un’enciclopedia di ciò che stiamo attraversando quotidianamente.

Prendiamo la prima stagione di The Leftovers: i primi episodi ci mostrano la reazione più comune, quel tentativo di razionalizzazione che si attacca agli strumenti tipici della logica. Così in televisione gli scienziati trasmettono numeri, lasciando che sia lo spettatore ad ammantarli o col calore di una rassicurazione o con la freddezza del cinismo (non è successo lo stesso a noi col rituale bollettino delle 18 della Protezione Civile?).

Alla logica dei numeri si contrappone, titanicamente, la speranza della fede ufficiale, rinvigorita dalle insicurezze di una scienza che non sa spiegare nei dettagli cosa succede. E se persino la scienza è costretta a proferire un “non lo so”, perché dovrebbe andare meglio con una religione che ha nel cielo il posto privilegiato e si preoccupa blandamente di ciò che accade in Terra? Mentre il pastore Matt trasforma la catastrofe in un martirio o una condanna, non è meglio rifugiarsi nell’abbraccio concreto di Wayne, un abbraccio che colma un distanziamento sociale psicologico – inevitabile nel post-catastrofe – e che diventa uno sfogo temporaneo di tutti i perché?

Già nel pilotfiglio ormai maturo dell’11 settembre, Leftovers scava all’interno della retorica, decostruendo il tentativo di riempire con nuovi miti il vuoto di una quotidianità persa: la celebrazione degli eroi, il primo terreno di scontro tra coloro che cercano di andare avanti e chi ostinatamente si aggrappa al ricordo trasformandolo in arma di ricatto (quanti Colpevoli Sopravvissuti albergano in certi commenti sui social…). Rivedere The Leftovers in questi giorni è angosciante, tanto per la sua lucida analisi quanto per l’insistenza sulla corporeità, in un periodo in cui ne siamo pesantemente privati. Allo stesso modo è disarmante e terribilmente d’impatto vedere i flashback sulle ore precedenti la Dipartita.

Una normalità inconsapevole di ciò che l’aspetta, con tutti i non-detti pronti ad esplodere quando l’insensato entra nella nostra vita; direttamente, come nel caso di chi ha perso qualcuno (o tutto, come Nora) o indirettamente, come la famiglia Garvey, toccata marginalmente (ad eccezione di Laurie) dalla Dipartita, eppure così profondamente trasformata da un giorno all’altro. È la stessa Laurie a diventare col tempo il baluardo del mondo pre-catastrofico; a lei toccano i dialoghi “più sensati” nella prospettiva di un cosmo che prova ad adattarsi, a lei tocca la veritiera frase “we’re all gone“.

La tragedia tocca tutti, in maniera indistinta, indifferente come l’universo kubrickiano e subdola, pronta a instillare il dubbio, concreto o meno, che possa ripetersi.

Su questa angoscia si sposta il focus della seconda e terza stagione, ancora più determinate nel mostrare il cedimento delle strutture pre-catastrofiche. Il capro espiatorio (letteralmente) dell’episodio finale è, in questo, esemplificativo di un mondo che cerca di scrollarsi le colpe di dosso addossandole a qualcun altro sperando che basti. Lindelof tratteggia un universo soffocante in cui non appena si apre un vuoto, la realtà interviene per colmarlo (è il caso dei nuovi Colpevoli Sopravvissuti), ma proprio per questo è un universo estremamente simile al nostro.

L’abilità di Lindelof (ed in questo Lost ha fatto da palestra) sta nel costruire una struttura del tutto plausibile partendo da una premessa inverosimile, e lo fa non solo con una scrittura magistrale dei personaggi, ma giocando con lo spettatore, instillando ad ogni inizio stagione il dubbio di trovarsi nella realtà giusta. L’angoscia lascia però spazio alla speranza nel dialogo finale tra Nora e Kevin, la sintesi estrema di un percorso che ha descritto un mondo nuovo di persone in cerca di un senso per ciò che gli è successo; un senso che diventa un’ossessione nel caso di Nora ma che non può arrivare se non con l’ambiguità del suo racconto. Non si tratta di credere realmente a ciò che dice, non ha più rilevanza in un universo che il 13 ottobre (il 20 febbraio 2020, per noi) ha spostato l’asticella dell’insensato ancora più in alto.

In Watchmen questi temi tornano e prendono a pretesto il genere supereroistico per regalarci un altro spaccato di un mondo completamente mutato all’improvviso: trent’anni prima rispetto agli eventi narrati, l’apparizione dell’alieno a NYC è stata orchestrata dal supereroe Ozymandias per unire contro un nemico comune USA e URSS, che altrimenti si sarebbe distrutti a vicenda scatenando una guerra nucleare. Il piano ha funzionato ma per mantenere la pace, Ozymandias ricorda al mondo la costante minaccia aliena, causando improvvise piogge di seppioline. Come nel caso dei Colpevoli Sopravvissuti, è necessario non dimenticare ciò che è stato.

La memoria è uno dei fil rouge della serie, che ne approfitta per ricordare le “piccole” apocalissi, tanto traumatizzanti quanto le grandi per chi le ha vissute (ad esempio i disordini razziali di Tulsa). C’è però anche qui una particolare attenzione alle reazioni a queste tragedie, che possono essere in parallelo con quanto stiamo vivendo. Ad esempio, a seguito di un altro improvviso evento del tutto umano, la città di Tulsa si spinge al limite dello stato di polizia, con libertà pericolosamente sospese o violate. Ciò dà adito a una serie di ipotesi di complotti e cospirazioni, in cui la fiducia generale risulta molto compromessa, la privacy a rischio e le autorità sono costrette a indossare una maschera per salvaguardare la propria incolumità.

Al di là di questi stiracchiati ma non scontati richiami, tra i tanti temi della serie a interessarci abbiamo una disamina della fede che fa il paio con quella mostrata in The Leftovers (che è pregna di simbolismi e citazioni religiose). In Watchmen è però Doctor Manhattan a fare le veci di Dio, giacché dotato se non dell’immortalità, quantomeno dell’onnipotenza. È lui a creare la vita umana su Europa, vita che, per tutta risposta, inizia a venerarlo. I cloni di Manhattan sono però insignificanti, blande copie degli umani ed è Ozymandias a spiegarne il perché, mettendoli di fronte alla dura realtà della loro mancanza di scopo.

Torna prepotentemente l’atavica necessità di interrogarsi, se non sulle origini, allora sulla destinazione della nostra vita. O sullo scopo di un dio stesso.

Non è infatti improprio pensare che la catastrofe del mondo di Watchmen non sia l’apparizione del mostro gigante ma quella del Dottor Manhattan che l’ha resa indirettamente possibile. “È nato prima l’uovo o la gallina?” si chiede Manhattan riesumando uno dei più antichi quesiti sulla generazione.

Lindelof non dà risposte, non ci ha mai provato fin dai tempi di Lost. Con gli altri autori ha approfittato del fatto che le domande, quelle ataviche, radicate nel profondo, non sono altro che un pretesto, una vanga per scavare dentro l’uomo e vedere com’è fatto, senza la pretesa di trarne una conclusione definitiva. Proprio per questo, sapendo che le apocalissi rappresentano l’humus su cui quegli interrogativi creano nuove radici, preparando nuovi percorsi, Lindelof si è fatto cantore dell’umanità post-catastrofica, dipingendo un affascinante affresco di tipi umani e super umani (in senso nicciano, però).

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