Episodio Undici
Il penultimo episodio di Gomorra appare preparatorio per un season finale fortemente empatico ed enfatico. Mentre lo scontro tra Pietro e Ciro incombe sempre di più, le varie forze minori cercano di mutare l’equilibro, passando da una parte all’altra senza successo. In realtà, colui che si sta attivando per mutare la scacchiera di Secondigliano è Ciro. In modo impavido e con quella nonchalance che lo contraddistingue, incontra Genny a Roma, alla vigilia del suo matrimonio.
Il dialogo tra i due è fortemente suggestivo, in quanto riattiva, come sempre, catene anaforiche che ci conducono alla prima stagione, al loro rapporto caratterizzato da un’amicizia controversa. Il confronto dialogico si svolge attraverso due binari distinti: Ciro che vuole coinvolgere Genny negli affari di Napoli e dall’altro lato Genny che ha come unico orizzonte Roma. Infatti Savastano junior non si fa scalfire in alcun modo dall’arte persuasiva di Ciro, rimanendo impassibile ad ogni sua proposta.
Anche un evento come il matrimonio diventa, in Gomorra, un topic della scrittura noir. Genny, aspirando ad una scissione indipendentista, fa arrestare il suocero nel bel mezzo della cerimonia e, la sera, distrugge quel quadro della famiglia Savastano, leitmotiv della prima stagione. Di poche parole, questo nuovo Genny ha invertito la propria tendenza caratteriale: non più impulsivo, preda del rancore, ha assunto quasi un atteggiamento stoico verso la realtà esterna. Genny ha costruito quasi una barriera difensiva da un padre che non gli ha dato mai fiducia , da quello scenario di Secondigliano in cui era soltanto il figlio di Pietro, per adottare un’unica prospettiva: la sua.
Intanto, il rapporto tra Patrizia e Pietro ha un ulteriore sviluppo, a mio avviso, scontato e da soap opera. La relazione poteva avere uno sviluppo paternalistico, eleggendo Patrizia a nuova erede dei Savastano, piuttosto che alla versione giovanile di donna Imma. In questo modo, il suo ruolo appare confinato nelle vesti di compagna quando, in realtà, poteva avere uno sbocco più originale e intrigante. Le premesse c’erano, visto il polo caratteriale impavido e altero conferito al personaggio di Patrizia, per la quale Pietro poteva essere quel padre che gli era stato sottratto troppo presto, piuttosto che un fidanzato attempato.
La battaglia finale è sempre più vicina e Ciro appare in netto svantaggio, con tutti i suoi alleati neutralizzati nel corso delle puntate precedenti.
L’episodio merita 3,5 porcamiseria per la sua natura fortemente preparatoria. Le relazioni interpersonali Ciro/Genny, Genny/Pietro e Pietro/Patrizia sono state maggiormente esplorate, in luce di un finale epico, in cui saranno determinanti.
Episodio Dodici
Una bambina. Una moglie. Un padre. Così avevamo iniziato il secondo atto di Gomorra e adesso, attraverso una struttura ad anello complessa e profonda, ci ricongiungiamo all’inizio. Riaffiora nella nostra memoria Debora che urla, in modo straziante e viscerale, il nome della figlia, in quel luogo a metà tra una piazza di spaccio e un parco giochi. Risuona nella nostra mente il suo grido, vivo e nitido, in questo epilogo così dissacrante. Risuona nel nostro sguardo, nella nostra pietas. Risuona in noi, spettatori attoniti di uno spettacolo di dolore e morte e protagonisti attivi di un processo catartico, abilmente elaborato.
Questo season finale mette in luce una verità molto triste: in uno scenario così corrotto e malsano anche i legami familiari si sfaldano. Il nido familiare non rappresenta più una sfera protettiva e anestetizzata dalle faide esterne. La guerriglia non si verifica più nelle strade in cui non giunge il sole, ma all’interno delle mura domestiche. Quel virus deleterio che è l’asfissia criminale, dall’esterno, infetta i rapporti, logora i sentimenti e contagia ogni ruolo. Un padre non è più un papà, ma un ostacolo al proprio successo. Una moglie non è più una compagna, ma un campanello d’allarme per i propri piani. Un figlio non è più un bambino sincero e sensibile, ma un avversario da svilire, oltraggiare e ferire nel punto più debole: l’autostima.
Sull’ultimo palcoscenico Gomorra rappresenta questo: la demolizione della famiglia, focal point dalla primissima scena in cui Ciro cessa di essere un marito, per tramutarsi in fiera. Attraverso un ritmo lento e sinusoidale che segue la dialettica del dolore e le movenze dell’animo umano, le azioni prendono forma in questo labirinto di azzardi e violenza in cui tutti i personaggi perdono se stessi.
La prima famiglia ad essere annientata è quella di Ciro, mutilata dalla sua stessa mano. L’immortale è inarrivabile, una furia scaltra e ponderata, diretta al suo obiettivo. Non conosce pause né esitazioni, ma soltanto la volontà di imporsi sulla scena da vincente. Da vincente, come non lo era mai stato. Da trionfatore, lui che, invece, aveva subito il giogo altrui per tutta la vita. Ora basta. Ora era il tempo della vittoria, non della resa. Era il tempo di quel riscatto sociale, che nella sua logica contorta, profumava di giustizia. E proprio perché era inarrestabile, il suo avversario Pietro ha inferto il colpo mortale. Quel colpo che non condanna alla morte, ma a qualcosa di più spaventoso: sopravvivere ai propri figli. Pietro Savastano per abbattere quella serpe di Ciro di Marzio, ordina l’esecuzione di Maria Rita. Raccontare, in modo espressivo, l’indicibile è davvero difficile. Muore così la bambina di Ciro, in un’esecuzione standard, da manuale, freddata da un unico colpo. A seguire, il silenzio di un padre perso nel limbo dei propri errori. All’urlo disperato di Debora si contrappone, in un parallelismo funereo, il silenzio di Ciro. Un silenzio più straziante di mille parole e da qui inizia la sua involuzione. Da fiera stava divenendo uomo, ma dopo aver guardato il volto di sua figlia non più immerso nei giochi, bensì racchiuso in una foto da lapide, diviene un omuncolo. Ricordate, nell’ultimo capitolo di Harry Potter, quando Harry scorge l’anima del Signore Oscuro? Questa è l’immagine di Ciro: rannicchiato, in un cappotto nero, correlativo oggettivo del destino di morte che è ora la sua vita, immerso nel proprio abisso. È l’immagine di quella che Pontano chiamava l’immaginate. La non umanità. Nei suoi occhi non c’è ubris, non c’è un barlume di vendetta, ma solo il desiderio di congedarsi da questo mondo. Solo il desiderio di rimanere cristallizzato nel suo dolore, sul pavimento nudo di quel terrazzo. Eppure la sua sfera di dolore è infranta, in modo ritmato, dai passi di un altro uomo: Genny. Sarà lui a dare il la alla sua prossima azione: uccidere don Pietro
Ciro, avvolto ancora in questo cappotto così fortemente visionario, si ritrova tra il marmo bianco, con una forte struttura a chiasmo, del cimitero. Davanti a lui Pietro. Finisce tutto qua. Pietro muore, Ciro se ne va. Non si sa dove, non si sa quale prospettiva può dipanarsi per lui, ma va, procede oltre. Eppure , anche dopo aver ucciso colui che ha tolto la vita alla sua bimba, nei suoi occhi non c’era vendetta, né sollievo, ma una disperazione perenne. Nei suoi occhi c’è solo il tormento, il gemito e la tortura di un uomo che ha ucciso la moglie e ha firmato, con la sua tracotanza, la condanna a morte di sua figlia. Una scena aulica e suggestiva, nel modo più assoluto. Lo scenario, le parole, la sfumatura cromatica: tutto perfetto. Una scena magistrale ed emblematica di quella catarsi su cui Gomorra si basa, in modo esemplare. Pietro finisce lì, di fronte alla sua Imma, tradito da quel figlio che si era impegnato a svilire, in modo perenne e martellante.
Ed ecco la seconda famiglia che soccombe, assorbendola, a quell’asfissia criminale, di cui tanto parla Saviano.
Pietro ha manifestato nei confronti del figlio un sentimento di perenne insoddisfazione: troppo debole all’inizio, e per questo mandato in Honduras ad affrontare l’inferno. Poi, tornato, era troppo inadatto a gestire il potere e per questo abbandonato da lui e dalla madre in quell’arena di avvoltoi e iene. Non c’è da stupirsi se, per tutta la seconda stagione, Genny ha perseguito un progetto individualistico, con un atteggiamento ponderato e fortemente distaccato. Genny ha intrapreso un percorso che l’ha portato, in modo inevitabile, a ripudiare la famiglia di origine e la memoria della stessa madre (visto la sua complicità con Ciro), per abbracciare un futuro in cui contempla solo Azzurra e… Pietro. Ed eccoci alla scena finale, basata su una prevedibile dicotomia vita/morte, bene/male. Attraverso un parallelismo macabro, nel momento in cui don Pietro esala l’ultimo respiro, suo nipote, il nuovo Pietro Salassano viene alla luce. Ma la nuova vita che si apre al mondo condivide, già, con quella che si è congedata, un destino di un potere insanguinato. E a che pro? Nessuno.
Proprio questo ci ha insegnato Gomorra, ripudiando ogni stile troppo apertamente didascalico e moralistico, ma adottando la stessa tecnica del teatro greco. Nel vedere Debora strangolata, Maria Rita morire, Marinella vivere in una gabbia, due ragazzi di quindici anni perdere la vita, Genny perdere una mamma e un papà senza battere ciglio, in noi spettatori è emerso un senso di disgusto e di distacco da quel mondo. Lo stesso disgusto catartico che proviamo nel vedere Medea uccidere i propri figli o Oreste la propria madre.
Un episodio da 5 porcamiseria, un plauso notevole a tutto il lavoro introspettivo degli autori, volto a rendere la famiglia la forza centripeta di un universo sempre più oscuro, sotto la cui ombra appassisce anche il fiore dell’innocenza.
Vi salutiamo, in attesa della terza stagione, con il suggestivo dialogo finale, che diventerà presto un cult di Gomorra
We Cirù
Don Piè
‘A fin do journ sta tutta ca
Sta tutta ca…
Twitter consente poche parole, ne userò una: GRAZIE!!!#Gomorra2 pic.twitter.com/GNOYOtb1BH
— Fortunato Cerlino (@FCerlino) June 15, 2016
"La fine del giorno sta tutta qua." #Gomorra2 pic.twitter.com/bXBqWPGe9x
— Sky Atlantic Italia (@SkyAtlanticIT) June 14, 2016
Ciro uccide a Don Pietro e Patrizia diventa boss nella 3ª stagione! #Gomorra2
— Jjerry 🖕👋★★★+6 (@jerrylor) June 14, 2016