Ci avviciniamo alle battute finali del processo e della serie, e dopo averci fatto rivalutare tutti gli eventi dal punto di vista della giuria, ecco che The People v O.J. Simpson: American Crime Story riporta al centro della narrazione Mark Fuhrman, il cui personaggio darà una scossa fortissima a tutti i protagonisti in gioco.
Questa scossa è rappresentata dall’esistenza di alcune registrazioni, relative a un’intervista mai pubblicata, in cui Fuhrman, precedentemente testimone chiave dell’accusa, fa ripetutamente riferimento a violenze e abusi perpetrati da lui e da altri poliziotti nei confronti delle persone di colore (che chiama costantemente niggers, contrariamente a quanto dichiarato sotto giuramento in tribunale). La strategia di Johnnie Cochran cambia così il focus, tornando a concentrarsi su quella questione razziale che nelle ultime battute del processo sembrava finalmente messa da parte. Le registrazioni diventano così la botta di fortuna, la Manna from Heaven del titolo, che permettono a Cochran e a tutto il team difensivo di fare un ulteriore passo verso la vittoria finale.
La caratterizzazione che viene data di Cochran, in questo episodio più che nel resto della serie, è quella di uno squalo che sta usando il processo del secolo come mezzo per perseguire i propri scopi, per quanto nobili possano essere. O. J. Simpson non è definitivamente più al centro della strategia difensiva: ora tutto ruota intorno allo screditamento di Fuhrman, al fine di provare il razzismo della polizia di Los Angeles e, solo in seconda battuta, l’innocenza di Simpson. L’insistenza per portare le registrazioni in aula e renderle pubbliche – e la sfuriata in conferenza stampa contro il giudice Ito quando questo accade solo in parte – fa parte di una strategia più grande, volta a fomentare l’opinione pubblica contro le forze dell’ordine. Il processo Simpson è solo una parte di questa strategia, e se ne accorge non solo l’accusa, ma anche alcuni collaboratori dello stesso Cochran – Bob Shapiro in primis – e il padre di una delle vittime, Fred Goldman, che in un misto di lacrime e rabbia chiede che si torni a parlare delle due povere anime che, all’inizio di questo circo mediatico, hanno perso la vita.
Dalle parti dell’accusa, non se la passano propriamente bene. La questione Fuhrman fa esplodere le tensioni, da sempre messe da parte per il bene comune, tra Marcia Clarke e Chris Darden. L’ultimo è evidentemente vittima dello stress e della stanchezza derivante da un processo lungo un anno, e la differenza di vedute con Cochran (che, anche qui, va ben oltre il processo) lo porta a rischiare l’espulsione e l’incriminazione per oltraggio alla corte. Stress, il suo, che trova valvola di sfogo proprio in Marcia, colpevole a suo tempo di aver insistito per far testimoniare Fuhrman. L’idea di essere stato assunto per “avere un nero nella squadra” non ha mai abbandonato Darden per tutto questo tempo ed ora esplode come una bomba ad orologeria in una sfuriata in ascensore.
Sapere quale sarà il verdetto finale del processo non ci impedisce di apprezzare il tanto accorato quanto inutile appello di Marcia Clarke in aula: un tentativo estremo di convincere giudice e giuria a concentrarsi solo ed esclusivamente sulle prove schiaccianti, a non farsi fuorviare da registrazioni che nulla hanno a che vedere con il processo ma che hanno invece il dichiarato scopo di spingere la giuria a votare “di pancia”. Costruire una bella storia da raccontare, ora che ci si avvicina al verdetto, è più che mai il mantra da seguire, e la squadra dell’accusa fallisce e fallirà ancora una volta nell’intento.
Anche questa volta non possiamo non elogiare Sarah Paulson, che riesce a far esprimere alla sua Marcia Clarke tutto il miscuglio di frustrazione, delusione e rabbia che ha dentro, in ogni sguardo, in ogni movenza, finanche all’unico momento di gioia rappresentato dall’ottenuto affido del figlio. E lo stesso trattamento va al Robert Kardashian interpretato da David Schwimmer, personaggio che da qualche episodio vive costantemente sbattuto tra due correnti: quella della team difensivo e dello stesso O.J., convinti di avere la vittoria in pugno, e quella della sua stessa coscienza, ormai persuasa che le prove siano inconfutabili e che ci siano molte, troppe cose che ancora non tornano nel racconto del suo amico.
A una puntata dalla conclusione possiamo affermarlo con certezza pressoché assoluta: American Crime Story è una delle migliori rivelazioni di quest’anno, capace di costruire episodi perfetti, di mantenere alta la tensione nonostante gli eventi siano di dominio pubblico – esemplare è, in questo episodio, la questione legata alla rivolta – e di dar vita a personaggi, da una parte e dall’altra della barricata, con cui è difficile non empatizzare. Un risultato decisamente non comune per una serie che racconta eventi reali e, proprio per questo, ancora più impressionante. Appuntamento, perciò, a settimana prossima per il gran finale.
Raramente mi è capitato di vedere una serie TV così intelligente e ben fatta come #AmericanCrimeStory. pic.twitter.com/SRth5TMIrD
— David Di Benedetti (@davidibenedetti) April 1, 2016
Non ho parole per descrivere Sarah Paulson. Dire 'brava' è riduttivo. #AmericanCrimeStory
— Stephen 🍁🎃 (@MrStinson_) March 31, 2016
https://twitter.com/rogerdelpiero/status/715546456573263875
E comunque Cuba Gooding jr attore più fastidioso dell'anno. #AmericanCrimeStory #SerialUpdate
— giovanni (@givagivaz) March 25, 2016