Dieci settimane fa, American Crime iniziava la sua seconda marcia trionfale verso il tacito riconoscimento di miniserie dell’anno, consapevole dei propri mezzi e con obiettivi possibilmente più ambiziosi di quelli dell’anno passato. A dieci settimane di distanza, possiamo dire che John Ridley, creatore e scrittore della serie, i suoi ambiziosi obiettivi li ha raggiunti anche questa volta, offrendo un concentrato di drammaticità e denuncia che ha pochi precedenti nella storia della Tv generalista statunitense; purtroppo però non possiamo dire con la stessa sicurezza che American Crime sia, anche quest’anno, la migliore miniserie in circolazione.
L’impressione è che Ridley e il suo staff di sceneggiatori abbiano giocato le loro carte migliori troppo in fretta. Sempre più spesso il ruolo del finale di una stagione non è quello di concludere il climax creato dagli episodi precedenti, non costituisce l’apice della tensione, e anzi arriva quando la narrazione degli eventi principali è più o meno conclusa, occupandosi, più che dell’azione, della riflessione. La combinazione degli episodi sette e otto di questa stagione ha costituito la vera valvola di sfogo di tutta la frustrazione concentratasi negli episodi precedenti. C’è poco da rimanere delusi quindi se i due episodi finali siano, almeno a livello di azione, meno ricchi dei precedenti. Quello che invece si può recriminare è una certa debolezza generale, nell’intensità della scrittura e nella gestione dei tempi, che, si, mantengono la tipica andatura calibrata dello show, ma sembrano ora fin troppo dilatati per sciogliere gli ultimi nodi in maniera ancora avvincente. American Crime arriva stanco al finale, come un velocista che dopo aver superato tutti gli avversari con un ottimo sprint, cede negli ultimi metri, vincendo ugualmente la gara, ma magari al fotofinish.
Taylor Blaine parla di responsabilità e di colpe, o meglio, parla di prendersi le responsabilità delle sue azioni non prendendosene le colpe. I due concetti sono spesso usati come sinonimi, Taylor li scinde in uno scatto improvviso di maturità, cercando di liberare una volta per tutte la povera madre dal pesante fardello che lui stesso pensa di costituire. La maturità si trasforma però presto in un orgoglio, tipico dei giovani testardi e/o idealisti, rifiutandosi di fare ancora una volta la parte della vittima al processo che lo attende e non accettando di affidare il proprio destino all’aiuto del suo desiderato stupratore. Gli altri ragazzi, a parte ovviamente il defunto biondino, non se la passano poi tanto meglio: qualche giorno senza andare a scuola e una valanga di responsabilità da distribuirsi. Becca Sullivan e la sua droga, Kevin LaCroix e il suo sfortunato invito verso gli amici a dare una lezione a Taylor, Eric Tanner e la sua famiglia ormai distrutta.
Quest’ultimo è certamente il personaggio più interessante tra i ragazzi, l’addio di sua madre è tra le cose più struggenti che abbiamo visto in questi dieci episodi: le sue parole sono pesanti come un macigno, per Eric e per ogni ragazzo omosessuale rifiutato dai propri genitori. Ci sembra così facile, a volte, comprendere le ragioni delle vittime, che dimentichiamo quanto sia dura, per chi stupidamente odia, troncare i propri affetti. Non arriviamo al punto di provare empatia per la madre di Eric, ma ne comprendiamo perfettamente l’umanità, la sofferenza, la disperazione. La lacrima è sul punto di scendere anche questa volta, e ancora, dopo l’abbraccio di Anne a Taylor nella tavola calda, la causa è il viscerale rapporto tra una madre e il proprio figlio. “I just wanted one of my kids“, riferendosi ovviamente al più giovane Peter, segna una chiusura netta e preventiva, senza alcuna possibilità di recupero. Addio madre-di-Eric, non ci mancherai.
Tra i “grandi” si scatena una vera e propria guerra. Ai piani alti troviamo una Leslie Graham (Felicity Huffman, simbolo incarnato della qualità della serie) che ha superato il trauma da possibile vittima della possibile strage di Taylor ed è tornata a fare quello che sa fare meglio, ovvero gestire la situazione, e anzi sembra più cattiva del solito quando si rifiuta di aiutare Dan e sua figlia. Viene ripagata con la stessa arma dal professore di ginnastica, che collaborando con Sebastian riesce a dare un senso all’hobby delle barche in miniatura nelle bottiglie costruite con tanta pazienza. Nel mentre Steph Sullivan, la moglie di Dan, ha la bellissima idea di confessare le colpe della figlia ad Anne Blaine (Lili Taylor eccezionale anche quando deve solo stare a sentire), appoggiandosi ad una solidarietà tra madri che in questi casi non ha proprio ragion d’essere. I LaCroix non hanno da combattere con nessuno se non con loro stessi, cercando di rimediare alle parole dette e alle azioni ai limiti della legalità tenendosi sempre molto stretti il figliolo Kevin, che si conferma personaggio tra i più inutili della stagione.
Sorvoliamo ancora una volta sull’intera faccenda razzista riguardante il preside della Marshall, faccenda che occupa un ruolo sostanziale in questi ultimi due episodi, almeno a livello di minutaggio, e che come abbiamo detto più volte non aggiunge nessun valore alla narrazione, anzi se possibile ne va ad intaccare l’efficacia, facendo ricadere ancora una volta il focus sul razzismo e sul labile confine tra giustizia e compromesso che esso regola all’interno del sistema giudiziario statunitense, come se fosse in ogni caso obbligatorio parlarne anche questa volta. Certo è che la causa di tutto ciò rimane l’ingenua fidanzatina, quella Evy che si, è stata molestata, si, è stata presa in giro dall’ormai ex fidanzato, ma che alla fine pensa bene di accettare i soldi della Leyland per aiutare la famiglia malridotta che abbiamo visto per due minuti solo nel primo episodio. Il dovere morale lascia spazio senza pensarci due volte al benessere economico, e se non altro si tratta di una conclusione realistica.
La nota più stonata della parte finale della stagione è però l’intervento dell’hacker Sebastian, che va a risolvere, o meglio a smuovere la situazione di stallo che si era creata dopo il terribile omicidio. Mosso dal senso di giustizia, dall’amore per le proprie figlie (anche lui col trauma familiare alle spalle, una costante), riesce a far crollare le certezze della Leyland, divulgando le dichiarazioni scomode di alcuni membri del consiglio interno, mette con le spalle al muro Dan, rendendo pubblici alcuni messaggi della figlia Becca, e mette un po’ di paura anche alla squadra di basket, Kevin compreso, per la storia dell’aggressione. Avremmo preferito che lo stesso risultato fosse stato raggiunto per una via non così semplice, Sebastian l’hacker costituisce, in fin dei conti, un deus ex machina, che interviene all’improvviso (non basta un episodio di anticipo) per risolvere una situazione altrimenti ferma. Ridurre la sua vicenda a questi termini potrebbe risultare forzato, soprattutto perché John Ridley e i suoi ci provano a dare un senso al personaggio, ma l’affrettata conclusione thriller, seppure molto efficace e coerente col tema della privacy nella realtà digitale che tanto stava bene in questa storia, non basta a chiudere il cerchio intorno ad un personaggio messo li solo per sputtanare tutti gli altri, che altrimenti se ne sarebbero stati tranquilli nella loro omertosa colpevolezza.
Somebody screams “rape” and nobody cares what really happened – Eric
Sul finale lasciamo Taylor e Eric sul punto di fare una scelta, che ovviamente non ci viene mostrata; una scelta sul loro futuro, sulla direzione in cui vogliono che le loro vite si indirizzino. I due ragazzi sono le due facce di una stessa medaglia, le due interpretazioni del singolo evento che ha scatenato tutto, perché se ci pensiamo bene ci è stato detto esattamente cosa è successo quella notte e prima di essa, eppure non abbiamo ancora capito se stare dalla parte di Eric o da quella di Taylor. L’interpretazione dei fatti è tutto in American Crime; la riflessione che mette in atto questo show taglia in due parti, come la lama affilata della katana che trafigge Taylor, ogni aspetto, il punto di vista è sempre più di uno, i buoni e i cattivi si scambiano i ruoli puntata dopo puntata. Essere genitori di un assassino, o figli di una madre distrutta dall’omofobia, compagni di squadra di uno stupratore, o peggio, di uno stupratore gay, essere accusato di razzismo ingiustamente, o accorgersi di esserlo veramente, cercare di fare il proprio dovere con diligenza, rischiando la carriera, o trovare strade illegittime per farla pagare a chi si mette sulla strada dei tuoi cari. American Crime non ti da la possibilità di scegliere da che parte stare, ti offre il lato più oscuro di ogni personaggio, e nessuna via di fuga.
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Il finale di #AmericanCrime, quel cliffhanger che poi non è, è la forma più alta di speranza: la libertà dell'uomo, la verità che ha dentro.
— G. Di Giamberardino (@Reifrak) March 17, 2016
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