American Horror Story6×03 Chapter Three

American Horror Story sembra essere entrato nel vivo della storia, mantenendo stavolta l'ottimo equilibrio meticolosamente ricercato nei due episodi precedenti. In questo episodio, assistiamo alla disfatta dei legami familiari e apprendiamo qualcosa in più sulla misteriosa colonia di Roanoke!

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Questa nuova stagione di American Horror Story ha segnato un deciso punto di svolta per la serie: abbandonati gli eccessi camp, la moltitudine di personaggi introdotti nel cast ma poi sfruttati al di sotto delle possibilità e uno storytelling a tratti eccessivamente frammentato e approssimativo, My Roanoke Nightmare opta per un approccio al genere più diretto, classico ed elegante, rivisitato in chiave moderna. Fin dalle battute iniziali della stagione, infatti, era evidente come la storia fosse molto più character oriented: solo tre i protagonisti principali, narrazione serrata, poco splatter e un senso di inquietudine che permea ogni singolo fotogramma.

Il grillo parlante

Con questo terzo episodio, è ancora più palese la volontà di dare una svolta ad una serie che, negli ultimi tre anni, si era un po’ adagiata sugli allori puntando più al sensazionalismo che all’effettiva qualità della storia, a partire dagli omaggi in ciascun episodio alla rispettiva stagione di American Horror Story, che contribuiscono a dare la sensazione di “chiusura del cerchio”.
Dopo il trasferimento nella casa stregata dei coniugi Miller nel Chapter One (evidente riferimento Murder House) e l’inquietante subplot delle infermiere assassine nel Chapter Two in pieno stile Asylum, non stupisce quindi vedere, in questo terzo episodio, notevoli riferimenti al culto della stregoneria e ai rituali esoterici, tema cardine della terza stagione Coven qui perfettamente riadattato alle esigenze della trama.

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L’introduzione del personaggio (non a caso) di New Orleans Cricket Marlowe – interpretato da Leslie Jordan, un’altra vecchia gloria di American Horror Story – dà a Roanoke una decisa svolta paranormale, già accennata negli episodi precedenti ma che trova in questa terza puntata il suo apice. Grazie a lui, in quella che è una vera e propria seduta spiritica (decisamente più di impatto di qualunque sequenza a cui abbiamo mai assistito in Coven) volta alla ricerca di Flora, viene inoltre introdotta la carismatica figura che con tutta probabilità sarà l’antagonista principale della stagione: Thomasin White, aka The Butcher (il macellaio, e non facciamo fatica a capire l’origine di questo soprannome), una presenza oscura che aleggia intorno alla dimora dei Miller reclamandone la proprietà.

Un grande merito di questa stagione di American Horror Story è quello di approfondire – al pari forse solo di Hotel – il background dei propri personaggi, dando una nuova chiave di lettura alle emozioni degli stessi; se l’inusuale formula della docufiction ha finora reso estremamente semplice effettuare questo tipo di analisi per i tre protagonisti – coadiuvata dalle performance eccellenti di Lily Rabe, André Holland e Adina Porter nel ruolo delle controparti “reali” della fiction – non era così scontato vedere lo stesso lavoro di ottima fattura su questo nuovo personaggio, stavolta mediante flashback.

Nonostante l’ingresso estremamente ad effetto del Macellaio di Roanoke nel plot principale (con una Kathy Bates, si può azzardare a dire, mai così in forma dai tempi di Misery), sono proprio le sequenze del flashback ad impressionare di più, oltre a fungere da pretesto per l’introduzione della colonia di Roanoke, segno che la storia sta davvero entrando nel vivo.

Croatoan

Nella versione narrata in My Roanoke Nightmare, di questa colonia si sa ancora poco; in questo terzo episodio assistiamo, però, alla genesi della loro leader, punita dal gruppo a seguito di una ribellione ma poi ritornata all’ovile (con l’aiuto del personaggio di Lady Gaga, ancora senza nome, che interpreta una sorta di strega di Blair reinventata in chiave storica) per gustarsi la meritata e sanguinosa vendetta.
L’inquietante storia della colonia perduta di Roanoke è entrata nell’immaginario collettivo americano; la versione originale narra che una colonia inglese si trasferì a Roanoke, volatilizzandosi letteralmente nel nulla senza lasciare tracce, se non un’unica, inquietante scritta: CROATOAN. Se questa parola rappresentasse un avvertimento, un riferimento all’omonima isola come nuovo rifugio dei coloni, un rituale esoterico o chissà cos’altro, non è dato saperlo; quello che è certo è che i 115 coloni (o i loro cadaveri) non furono mai più ritrovati, alimentando una serie di leggende legate alla sparizione.

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In questo episodio, questa parola assume un duplice significato: viene utilizzata da Cricket per cacciare The Butcher durante la seduta spiritica, e la sentiamo pronunciare ossessivamente dai due bambini abbandonati dai Polks, come se fosse una sorta di avvertimento. In questo senso, Croatoan potrebbe rappresentare una sorta di formula allontana-spiriti, e osservando come i bambini ne siano a conoscenza viene naturale pensare che i Polks abbiano già incontrato, in passato, l’allegra colonia e si siano volatilizzati per questo motivo.

Rimane ancora un mistero tuttavia, dopo tre episodi, la logica sottesa all’utilizzo ossessivo del maiale all’interno di Roanoke, in modo simbolico e non. Emblema della fertilità nelle civilità più antiche, a seguito dell’avvento del cristianesimo ha assunto via via connotati sempre più negativi, fino al punto in cui in alcune culture lo stesso simboleggia il diavolo in persona. Tuttavia, l’unica cosa che è chiara fino a questo punto è che ad esso sono collegati i momenti più di impatto di questi primi tre episodi: dopo il girarrosto umano e la videocassetta nello scantinato della villa dei Miller, lo strano allattamento dei ragazzini all’interno della stalla e le bambole smembrate con la testa di maiale sono quanto di più inquietante American Horror Story abbia mai offerto in sei stagioni.

Famiglia?

Un altro punto di svolta di questo episodio è rappresentato dal dissolvimento definitivo di tutti i legami familiari così come ci erano stati presentati finora, la cui molla è rappresentata dalle ricerche della figlia di Lee.

La rottura del legame tra i coniugi Miller, già preannunciata nello scorso episodio, raggiunge qui il suo punto massimo; in questo caso, due gli avvenimenti salienti: Matt progetta ad insaputa della moglie di bruciare la casa (e come dargli torto, in effetti), e viene inoltre ritrovato da Shelby nei boschi, intento a fare sesso in stato di quasi-incoscienza con la strega interpretata da Lady Gaga (un personaggio, il suo, dalla natura poco chiara ma che probabilmente riserverà diverse sorprese nei prossimi episodi). Non è ovviamente dato sapere se questa scena disturbante fosse solo una visione nella mente di Shelby; Matt dimostra, ad ogni modo, di non ricordarsi assolutamente nulla.
Questa singola scena è emblematica della diversa struttura narrativa, che differenzia Roanoke dal precedente Hotel. Laddove in Hotel il sesso era un fattore di shock, usato spesso senza un fine preciso o come pretesto per dare sfogo al gore della peggiore specie, questa singola scena – ben contestualizzata e inquietante al punto giusto – ha anche un preciso fine: del resto, quale modo migliore per convincere una coppia ad andarsene da un posto a cui sembra essersi attaccata con le unghie e con i denti se non indurle al divorzio?

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Nel caso di Lee, invece, la rottura dei legami è assolutamente non voluta; il suo personaggio è infatti l’unico, tra i tre protagonisti, ad essere esclusivamente vittima delle circostanze: con la figlia scomparsa, il marito brutalmente ucciso arso vivo (ancora Coven qui: Balenciaga?), e la cognata che la spedisce dritta in galera con l’accusa di aver assassinato il marito, la donna è caduta episodio dopo episodio in una spirale di disgrazia e tormento da cui non sembra possibile uscire.

Ancora più rispetto agli anni precedenti, la forza di American Horror Story risiede tuttavia in due elementi principali: la regia e il cast.
Non si finirà mai di ripeterlo, ma al netto della trama più o meno godibile il trittico di protagonisti della fictionSarah Paulson, Cuba Gooding Jr e Angela Basset, finalmente in un ruolo che le rende giustizia – danno davvero quel valore aggiunto necessario a portare l’intera serie su un altro livello. La performance eccellentemente inquietante di Kathy Bates è poi la ciliegina sulla torta; il suo ruolo in questo capitolo è indubbiamente il migliore tra tutti quelli a lei assegnati nel corso della varie stagioni, e ha tutte le carte in regola per entrare nella storia della serie.
Nota di merito anche per regia e fotografia che, private della pulizia formale e dei colori eccessivamente saturati che facevano la parte del leone in capitoli come Freakshow e Hotel, svolgono egregiamente il loro lavoro, rendendo al meglio i segmenti più smaccatamente horror e accentuando la drammaticità delle situazioni.

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È soprattutto con questo episodio che American Horror Story sembra definitivamente essere entrato nel vivo della storia mantenendo fortunatamente un suo stabile equilibrio – a differenza delle ultime tre stagioni in cui, a questo punto, già qualcosa iniziava a scricchiolare – e trovando il coraggio necessario per staccarsi dagli eccessi del passato. La serie sembra, quindi tornata agli albori con un horror meno “spinto” ma, forse proprio per questo, più inquietante. E in fondo, questo è quanto di meglio possiamo chiedere ad una serie di questo tipo.
Il voto questa settimana è un meritatissimo quattro porcamiseria su cinque.

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