Blindspot1×01 Pilot

Il termine blind spot, in inglese, sta ad indicare un punto cieco, una porzione di spazio non visibile. Si tratta di un buon titolo per una serie Tv, soprattutto per una che non fa effettivamente vedere niente di quello che dovrebbe. Le cose che ci sono piaciute di questo primo episodio pilota di Blindspot sono […]

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Il termine blind spot, in inglese, sta ad indicare un punto cieco, una porzione di spazio non visibile. Si tratta di un buon titolo per una serie Tv, soprattutto per una che non fa effettivamente vedere niente di quello che dovrebbe. Le cose che ci sono piaciute di questo primo episodio pilota di Blindspot sono poche, sostanzialmente due: l’inizio e la fine. Cerchiamo di capire i motivi per i quali tutto ciò che sta in mezzo non vale molto.

La serie è stata creata da Martin Gero, dal passato poco noto, e co-prodotta da Greg Berlanti e Mark Pellington. Il primo ha messo mano a diverse serie di successo, tra cui Dawson’s creek, Everwood, e i più recenti Flash, Arrow e Supergirl (tralasciando il flop di Lanterna verde sul grande schermo), il secondo ha firmato la regia di una lunga lista di video musicali dagli anni 80 a oggi. Le premesse non sembrerebbero delle migliori, eppure Blindspot è riuscita a catturare l’attenzione di molti spettatori, e della NBC. Il merito è soprattutto del soggetto, senza dubbio affascinante: una donna viene ritrovata dentro una borsa nel bel mezzo di Time Square, è nuda, ricoperta di tatuaggi da capo a piedi, e non si ricorda nulla. L’FBI indaga. Fin qui tutto molto bello, poi l’episodio inizia e ti rendi conto che non è proprio come pensavi.


Non ci rimangiamo la parola, abbiamo detto che l’inizio ci è piaciuto e confermiamo, ma il giudizio positivo è dato soprattutto dal soggetto, quello che vi abbiamo appena raccontato, perché a voler essere attenti si intravedono già dalla prima affascinante sequenza alcune debolezze. Per esempio tra il momento in cui il poliziotto di turno chiede a gente a caso se la borsa appartenga a loro e il momento in cui Time Square viene evacuata presumiamo passi un po’ di tempo, e l’iperbole funziona: ciò che non è credibile è il fatto che lei si svegli e decida di uscire nel preciso momento in cui l’artificiere allunga la mano verso la borsa. Capiamo che il realismo non sarà il punto forte di questa serie e ci mettiamo l’anima in pace.

E questa era la parte bella, iniziamo con quella brutta. La tipa ha tatuato sulla schiena il nome di un agente dell’FBI, Kurt Weller, che viene prelevato dal Kentucky con un elicottero la sera stessa, subito dopo una missione brillantemente riuscita. L’agente viene messo a capo dell’operazione “capiamo chi è questa ragazza” a cui partecipano almeno una ventina di persone. Fin qui ci siete? No perchè noi ci siamo già persi. Dal Kentucky a New York in elicottero per quella che non è assolutamente un’emergenza, di nessun tipo. Weller viene messo a capo dell’operazione in automatico, solo per il tatuaggio con il suo nome, quando invece proprio per questo si tratterebbe dell’unica persona al mondo su cui l’FBI dovrebbe indagare. Ma poi, soprattutto, perchè l’FBI dovrebbe sforzarsi così tanto di capire chi è sta tipa, che se non fosse per il bell’aspetto potrebbe essere una tossica qualunque? Non basta un mistero per costruire una storia, serve un motivo di interesse per questo mistero, e Blindspot per ora non ce lo fornisce.


Il resto della puntata prosegue come un episodio medio di NCIS, a parte il fatto che NCIS almeno ogni tanto fa ridere, volutamente. I nostri identificano tra i tatuaggi un indirizzo appartenente ad un cinese, e scoperto che questo vuole, ovviamente, compiere un attentato, lo vanno a cercare, e lo trovano: sì, sono in macchina e semplicemente lo trovano per strada, così, senza particolare sforzo. Per restare in tema di semplicismi succede anche che in cinque secondi il cinese riesca a separare i vagoni di un treno della metropolitana in corsa, e che il nostro eroe faccia esplodere una bomba dopo aver diminuito la sua carica esplosiva, rimanendo illeso e venendo fuori da una cortina di fumo dopo un’improbabile atmosfera di preoccupazione per la sua incolumità.

Succede anche che Weller e Jane (Jane Doe, corrispettivo di John, nome assegnato alle persone senza identità) riescano a sventare l’attacco terroristico del cinese, in cima alla statua della libertà, semplicemente trovando il terrorista, inseguendolo su per una lunghissima scala a chiocciola (la cui altezza è enfatizzata con una lunga ricostruzione in computer grafica) e sparandogli. La banalità però passa in secondo piano se confrontata con la ridicolaggine del fatto che Jane, con ferita da arma da fuoco appena procurata, riesca a salire l’infinita scala senza alcuna difficoltà e arrivando improvvisamente in cima proprio nel momento in cui Weller è in difficoltà. Cose che neanche col teletrasporto.


Altri momenti che ci hanno fatto ridere: il “wow” inspiegato dello scenziato dell’FBI quando incontra Weller; Jane Doe truccata a dovere con la matita sotto gli occhi per meglio affrontare i durissimi ed estenuanti interrogatori dell’FBI; la scena della scansione completa dei tatuaggi di Jane, decisamente molto credibile a livello tecnologico, che sembra piuttosto un pezzo a caso di un concerto dei Muse con quei laser verdi e la piattaforma rotante. E poi c’è la scena in cui lui, a casa da solo la sera, si riguarda le foto di lei tatuata; foto teoricamente scattate dall’FBI, ma che sembrano prese dal profilo Flickr di qualche adolescente stile dark.

Forse siamo stati troppo cattivi con questo Pilot, in fondo è molto più facile criticare che accorgersi degli aspetti positivi di qualcosa. L’aspetto positivo di questo Blindspot è il fatto che Jane sembra avere una bella storia alle spalle: si scopre che faceva parte dei Navy Seals, che un uomo misterioso che assomiglia in modo evidente a Carlo Cracco la controlla, e che uno dei suoi tatuaggi è collegato ad un dossier riservato su un caso riguardante l’assistente direttore dell’FBI. La scena finale poi ci lascia con un colpo di scena inaspettato e intrigante, che sembra assicurare uno sviluppo narrativo interessante per i prossimi episodi.


Non abbiamo parlato degli aspetti tecnici, forse per non infierire. Il passato di Mark Pellington, regista dell’episodio, si riconosce nel fastidioso stile da videoclip: inquadrature da posizioni improbabili, finta telecamera a mano, scorci di fuoco tra porzioni di nero che coprono più di metà dell’inquadratura, una fotografia iper-contrastata, luci ovunque, montaggio inutilmente serrato tanto per fare i fighi. La sceneggiatura poi ci propone cose come “Non ti stanchi mai di avere ragione? – No” che lasciano perplessi. I 2 Porcamiseria su 5 che assegnamo premiano unicamente il soggetto affascinante e il colpo di scena finale. Altre cose interessanti non ne abbiamo viste, ma la speranza è l’ultima a morire.

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