È difficile per noi Occidentali avvicinarci alla cultura orientale, profondamente diversa nei valori e nella visione del mondo; è ancora più complesso, a dirla tutta, provare a comprendere quella mongola del 1200, quando gli Imperatori e i Khan si divertivano nella loro personalissima versione del Gioco dei Troni e le città si conquistavano ancora con eserciti e macchine d’assedio.
Netflix, forte del suo recente successo nelle produzioni proprie, si è lanciato in questa ambiziosa impresa, costata ben 90 milioni di dollari; Marco Polo prova così – in dieci episodi da un’ora l’uno – a mostrarci uno scorcio di questa ricchissima tradizione, opulenta e crudele, vista dagli occhi tondi di un occidentale venduto dal padre come merce di scambio al Kublai Khan per avere il salvacondotto imperiale e continuare nel suo obiettivo: percorrere la Via della Seta in lungo e in largo.
Verità o leggenda
Storicamente parlando, la serie è incredibilmente fedele agli avvenimenti che si susseguirono dal 1272 in poi, e non è cosa da poco per una serie che si proclama “storica”. Il piccolo schermo è pieno di adattamenti romanzati di personaggi storici, avvenimenti con una collocazione temporale ben precisa, e per quanto possano piacere (parlo con te, Da Vinci’s Demons) è innegabile che gli sceneggiatori si prendano spesso fin troppe libertà; sacrificare l’attendibilità storica porta pubblico, innegabilmente, ma alla lunga fa storcere il naso agli estimatori di una serie che però ricordano i fatti in maniera un po’ – tanto – diversa. Una serie storica, per definizione, deve avere delle premesse più che solide se vuole durare e far breccia negli spettatori per più di due puntate. Ne deriva un ritmo piuttosto lento, forse non alla portata di tutti, ma di sicuro valore.
Nel 1273, Marco Polo aveva solo diciassette anni, più o meno, quando fu lasciato dal padre alla corte mongola, per diletto del Kublai Khan, grazie alla sua semplice ma preziosa abilità: il racconto. Marco dipinge mondi sconosciuti ai mongoli, e a noi spettatori, con la sola forza delle parole, e il Khan – uomo saggio – capisce al volo che il Latino (così da lui appellato) sarà un consigliere prezioso, non solo per farsi narrare ciò che ha visto e ciò che gli altri non riescono a vedere. Il Latino rimarrà alla corte di Kublai per ben diciassette anni, prima di tornare in patria e scrivere una delle prime enciclopedie geografiche mai pubblicate, la guida più completa all’Asia che si potesse trovare allora: il Milione.
Vivere tra i barbari
La prima stagione di Marco Polo si prende tutto il tempo per introdurci con calma i vari personaggi di un affresco che proseguirà e si arricchirà nelle successive stagioni, di cui la seconda già confermata per l’estate 2016.
Marco Polo è semplicemente maestoso: i paesaggi sono sterminati e le scenografie sono curate nei minimi dettagli; la cultura barbara e orientale – così bella e così crudele – è mostrata non solo negli accampamenti di yurte (le tende dei mongoli, vere e proprie “case mobili”) o nel palazzo del Khan, ma si respira nelle stanze nella corte imperiale cinese, nelle sterminate praterie del Sud della Cina, nei giardini curati e nei deserti della Via della Seta.
Netflix può permettersi il lusso di non avere censura o quasi, nei suoi prodotti, e al confronto di certe scene l’HBO può essere considerata una cable puritana; gli Occidentali del 1200 (ed è un atteggiamento che è perdurato negli anni) si sono sempre ammantati di ipocrisia, mascherando la crudeltà e gli istinti insiti in ogni essere umano sotto quella che è nota nel mondo come civilizzazione.
I barbari mongoli, al contrario, hanno il privilegio di essere tali e mostrare quindi la propria ferocia liberamente, che sia in battaglia o in camera da letto. Marco Polo vanta numerose scene assolutamente crude, esplicite, vere. Il tutto non è mai gratuito o eccessivo – forse solo in alcuni punti, ma nulla di troppo fastidioso – e serve solo per confermare la solidità dell’universo che porta sullo schermo, reale non solo in ciò che è positivo ma in tutto quanto: esecuzioni, orge, tortura – botte, sangue, violenza alè alè.
Maschere
Un altro grande pregio di Marco Polo sono i personaggi, magistralmente pennellati con la china dei titoli di testa (davvero pregevoli) ma non per questo bidimensionali.
Tolto il protagonista, Marco – con cui l’attore Lorenzo Richelmy ha fatto davvero un lavoro ottimo, discreto al punto giusto ma mai messo in ombra dai comprimari – gli uomini e le donne che vediamo in scena hanno uno spessore che va ben oltre l’essere semplice contorno al personaggio principale. Il padre che lo “vende” alla corte del Khan è Pierfrancesco Favino, in una piccola parte davvero azzeccata.
Tutte le vicende sono viste dagli occhi di Marco ed è lui che ci conduce attraverso questo viaggio, ma ciò non toglie che i vari personaggi si reggano benissimo sulle proprie gambe: il Kublai Khan (un carismatico Benedict Wong) è nipote di Gengis Khan e ha la possanza – fisica e morale – di un uomo davvero saggio e posato, malgrado sia un barbaro e si lasci andare saltuariamente ad attacchi d’ira. La capacità di riconoscere il valore nelle persone, soprattutto se straniere, fa di lui un sovrano illuminato. E anche nella storia realmente successa, Kublai fece di Marco Polo uno dei suoi cortigiani più fedeli.
Il principe ereditario Zhenjin, purtroppo, è solo l’ombra del padre: rappresenta alla perfezione l’insicurezza di un ruolo scomodo, il peso delle aspettative e la gelosia nei confronti di Marco, molto più ascoltato di lui benché straniero. Stesso discorso per Chabi, la moglie favorita (come da usanza, il Khan ha un harem e svariate consorti), che serve a mostrarci come le donne – nella cultura mongola – potessero ricoprire ruoli piuttosto importanti, una novità rispetto alla società cinese dove invece il genere femminile era relegato al letto o alle stanze da tè.
C’è poi Khutulun, la figlia di uno dei nobili “generali” mongoli al servizio del Khan, una guerriera che si veste da uomo e non per questo guardata con stranezza, anzi.
C’è infine anche la Principessa Blu, che Marco adocchia da che mette piede alla corte del Khan, una preziosa “prigioniera” di guerra dato il sangue che le scorre nelle vene; non ha nulla, tuttavia, che ricordi l’immagine indifesa e spaventata di una principessa in mano a i barbari.
Nota infine per altri due componenti della corte di Kublai: Ahmad, il Ministro delle Finanze e Yusuf, il Ministro della Guerra, che dice sempre la verità. Due tasselli molto importanti per il già citato Gioco del Trono che si conduce alla corte del Khan. Littlefinger e Varys sarebbero fieri.
Dalla parte cinese, oltre le mura della città fortificata di Xiangyang che Kublai tenta così disperatamente di conquistare, due personaggi spiccano su tutti gli altri: il cancelliere Jia Sidao (Chin Han) e sua sorella, una delle concubine predilette dell’imperatore, Mei Lin (Olivia Cheng). Entrambi letali combattenti – Sidao soprattutto utilizza il kung fu della mantide in alcune scene di lotta davvero spettacolari – ed entrambi invischiati fino al collo nelle questioni mongole.
Mei Lin agisce da marionetta nelle mani dell’ambizioso fratello, che non si fa problemi a usare le sue doti di seduzione per corrompere funzionari e ottenere confidenze che solitamente si fanno solo tra le lenzuola; ma la cortigiana – spedita nel corso della storia alla corte di Kublai – è tutt’altro che lieta di sostenere la fame di potere del cancelliere: è l’amore per la figlia a spingere ogni sua azione, e in un mondo governato da chi sa nascondere i propri sentimenti, non può andare troppo lontano. Forse.
Jia Sidao è un cattivo ben costruito, davvero spietato: è una crudeltà diversa da quella dei barbari – culturalmente giustificata; sottile, infida e pericolosa, il calcolatore per eccellenza, pronto a manipolare il piccolo imperatore (dato che il vecchio muore più o meno all’inizio della serie) pur di mantenere sul trono la Dinastia Song. Personalmente lo ritengo uno dei personaggi migliori dell’intera stagione.
Menzione d’onore a parte per Cento Occhi (Tom Wu), un monaco taoista, guerriero, che serve alla corte del Khan e che addestra Marco, in un doppio ruolo di saggio maestro à la Yoda e fidato amico. Completamente cieco. Ogni sua osservazione è una perla di filosofia orientale, mai affettata ma sempre puntuale e perfettamente integrata nel contesto. È il tocco di delicatezza orientale in un mondo di sangue, complotti e guerre; lo Yin nello Yang. Per approfondire la sua misteriosa storia, Netflix ha giust’appena regalato al suo pubblico uno speciale a lui dedicato, che vi consiglio caldamente di guardare a corollario della serie.
Questa prima stagione si guadagna di diritto cinque porcamiseria.
E’ davvero difficile regalare a un pubblico occidentale un viaggio nell’Asia Orientale del 1300 circa e rendere appetibili, oltre che coinvolgenti, le vicende di una cultura così lontana dalla nostra. Marco Polo svolge egregiamente il suo compito: una serie che è non alla portata di tutti, va detto, perfetta invece per chi ama la storia e per i curiosi. Davvero una chicca da non perdere.
L’inquietante chiusa di questi primi dieci episodi spiana la strada a complotti ben più grandi e a vicende ben più impegnative che la conquista di una città fortificata. Non ci resta che aspettare la prossima estate per scoprire cosa succederà.