Se dovessimo sintetizzare l’esperienza passata con la prima stagione di Narcos, la prima cosa che saremmo in grado di dire sarebbe: sappiamo benissimo come andrà a finire, ma non riusciamo a staccarci dallo schermo. La chiave di questa storia non è infatti il punto di arrivo, ma il viaggio e l’intimità, filtrata attraverso la tv, con il più celebre narcotrafficante della storia.
A metà tra terrore e umanità, l’episodio parte esibendoci due prospettive, tra la fuga rocambolesca del patrón tra la vegetazione attorno a La Catedral, mentre i militari fantasticano sull’improbabile sovrannaturalità dell’uomo a cui danno la caccia, e il ritorno da Tata e da tutta la famiglia Escobar, in cui il cuore pulsante del re della cocaina è esposto e vulnerabile. Non si tratta di cerchiobottismo, o di un – vano nonostante tutto – tentativo di dipingere il re della droga colombiano più umano del necessario, è solo la necessità narrativa di osservare a 360 gradi l’anti-eroe per eccellenza, certi, sotto sotto, che qualcuno cadrà nel tranello e finirà per empatizzare con la sua storia.
La parentesi più squisitamente umana di Escobar dura poco rispetto al consueto susseguirsi di intimidazioni e violenze, e la magia dell’intimità con Tata lascia quasi subito spazio alla rincorsa del protagonista per ribadire il suo potere. Dentro al suo personaggio, Wagner Moura catalizza l’attenzione senza lasciarci la possibilità di resistere al fascino dei suoi gesti e delle sue parole, ma non appena distogliamo lo sguardo dal re della cocaina troviamo dinanzi a noi una Medellín in guerra civile: il cartello di Cali e persino i suoi sostenitori pensano di poter approfittare della momentanea debolezza di Escobar per spodestarlo, mentre la DEA e Gaviria continuano la caccia, con l’utilizzo di ogni singolo uomo dell’esercito. L’uomo nascosto nel bagagliaio di un taxi, granitico nel voler riaffermare la sua supremazia (salvando nel contempo le apparenze) nonostante il vento a sfavore, si staglia su uno sfondo di sangue e violenza a cui mancava da troppo il principale carnefice.
Il manifesto del ritorno di Escobar è l’uccisione del fratello di Judy Moncada, un monito a chi dovesse mai nutrire desideri di vendetta nei suoi confronti, grazie a telefonate lampo a gruppi alleati e un efficace e rapido ritorno in campo. Se i potenziali rivali crederanno all’onnipotenza di Escobar è tutto da vedere, intanto il messaggio è arrivato forte e chiaro come il rumore di uno sparo attraverso la cornetta del telefono.
Laddove Moura/Escobar svetta egemonico nel corpo narrativo di Narcos, altrettanto non si può dire della controparte Steve Murphy: il co-protagonista, specialmente in questa premiere, è un pesce fuor d’acqua, utile voce fuori campo – sono tornati gli spiegoni! – ma molto meno utile a riequilibrare la narrazione, non riuscendo a dare nemmeno una parvenza di dualità tra i personaggi principali della serie. In tal senso persino Javier Peña fa un lavoro migliore, mentre Murphy è impegnato a prendere a pugni due ignari consumatori di cocaina, con Connie fuggita negli Stati Uniti, oppressa dalla pericolosità di Medellin.
Narcos ritorna e non tradisce il suo stile, in perfetta continuità stilistica con la precedente stagione, e questo non può che essere un bene. Wagner Moura si conferma come la divinità intoccabile della serie, mentre il co-protagonista Boyd Holbrook non è altrettanto efficace nel dare la giusta rilevanza al suo personaggio, adombrando 50 minuti di premiere altrimenti perfetta. 4 porcamiseria su 5, per il ritorno a Medellín che tanto aspettavamo.
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