Orange Is The New Black4×10 Bunny, Skull, Bunny, Skull – 4×11 People Persons

Lolli, Suzanne, Blanca, Nicky, Maritza, Sophia, Doggett tutte vittime ignare dell'uomo che si tramuta in fiera, di omuncoli che non meritano nemmeno la loro collera o il loro disprezzo. Poi, in un accavallarsi di suspense, l'allucinante colpo di scena e il verdetto con cui si conferma che è sempre il più debole a pagare.

0.0

Bunny, Skull, Bunny, Skull

Aleida, finalmente, esce di prigione. Come Taystee un po’ di tempo fa, oltre le mura di Litchfield, Aleida è totalmente disorientata e sola. Costretta dagli eventi a stringere un sodalizio con la sua nemesi, si ritrova all’alba a cullare una bimba non sua, piena di rimpianti e tristezza. A quanto pare la libertà può far rimpiangere la prigione. Questo ossimoro dissacrante, questa contraddizione in termini è il frutto di una società che punisce, ma non educa, non riabilitando il cittadino colpevole. La prigione, non seguendo nessun programma di integrazione, ma praticando solo sopraffazione e violenza, induce il detenuto non sulla via della rettitudine, ma della stigmatizzazione sociale.

Come si è visto, infatti, negli episodi precedenti, l’abuso di potere è il nucleo tematico attorno al quale ruota il plot building di questa quarta stagione di Orange Is The New Black, in tutte le sue sfumature. Tornando a Litchfield, infatti, troviamo Blanca ancora su un tavolo e Maritza che soccombe a quel sentimento di vergogna e di isolamento che affligge ogni vittima che, ferita nel profondo della propria dignità, non ha la forza di scagliarsi contro il proprio carnefice. Sintetico ma molto significativo il discorso di Flaca che, con un espressionismo comunicativo adatto al momento, descrive l’ignoranza e la crudeltà di quelle guardie, in nessun modo rispettose nei confronti dell’altro. A far eco a Flaca, ci pensa Red che, commentando l’ingiusta condizione di Blanca, evidenzia il grande complesso di inferiorità di Piscatella e dei suoi colleghi, omuncoli che per affermarsi devono danneggiare il prossimo. Terenzio diceva “homo sum, humani nihil a me alieno puto”: una grande lezione di pietas e solidarietà, per nulla vigente in quel sistema perverso, in cui l’aver commesso un crimine diventa sufficiente a rendere una donna un giocattolo inerme, sul quale scagliare i propri istinti più beceri e perversi.

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Finalmente, almeno un’ingiustizia è cancellata a Litchfield, e ci riferiamo a Sophia. Da troppo tempo relegata all’Inferno, grazie a Jane e ad un Caputo tornato a fare ciò che è giusto, potrà ritornare a Litchfield e porre fine a quel tunnel di disperazione e morte, che era per lei l’isolamento. La solidarietà di cui parlava Terenzio ha trovato un corrispettivo nel coraggio di una suora, personificazione dell’amicizia più pura, e nello sdegno morale di Piper che, senza esitazioni, sale sul tavolo della resistenza a fianco di chi l’ha marchiata.

In un episodio di transizione come questo, in cui alla mancata astinenza di Nicky si alternano momenti di razzismo ingiustificati, alla delusione di Suzanne le leggi sul teletrasporto di Lolli, non ci aspettavamo, nell’ultimo minuto, un evento tale da mutare in modo irreversibile la routine della prigione. Piscatella, autoeleggendosi direttore di Litchflied, dà il permesso per scavare in giardino e sappiamo bene questo cosa significhi. Niente più orto, niente più serra: queste le parole che decreteranno l’inizio della fine. Peccato che a Litchfield non ci sia nessuna Karen McCluskey (i fan di Desperate Housewives capiranno bene) pronta a sacrificarsi per la causa. Ma una rossa, con un grande self-control e uno spiccato problem-solving sì…
Assegno 3,5 porcamiseria a questo episodio: come pausa parziale nel ritmo della narratio ci ha dato sì la possibilità di riprendere fiato prima del precipitare degli eventi, ma con qualche elemento pleonastico.

3.5

 

People Persons

“Tu prova ad avere un mondo nel cuore e non riesci ad esprimerlo con le parole…”

Così inizia Un matto di De André, una canzone che descrive chi vive su quel labile confine tra realtà ed illusione, intrappolato e condannato da un villaggio che ride della propria persona. Non a caso ho scelto questa canzone, emblema del disagio di chi dalla società è letto matto, per commentare People Persons. In questo episodio di Orange Is The New Black, infatti, completiamo, il viaggio iniziato in passato, nel background complesso e dinamico, straziante e insostenibile di Suzanne.

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Un mantello da favola, un pomeriggio al parco e un compagno di giochi. Sembrerebbe un topico quadro esperienziale, una scena vista mille volte in family drama e commedie di ogni genere. Ma questa situazione apparentemente amena e bucolica si tinge, in Orange Is The New Black, di note tragiche ed oscure. La bambina che ama i mantelli, correlativo oggettivo di un mondo favolistico vissuto come evasione, è una ventottenne sui generis. La nostra Suzanne. Con la tipica ingenuità di chi della vita non conosce nessuna filigrana ambigua, è una persona socievole ed allegra. Di un’unica cosa aveva bisogno: non essere lasciata sola. Se la cavava bene la nostra Warren, era l’impiegata del mese, eseguiva il suo lavoro con molta precisione e con quel brio che la rendeva unica. Estrosa, sorridente. Ma non poteva restare sola in un mondo in cui lei non conosce le tacite regole comportamentali, in un mondo in cui stare con un bimbo a casa per lei equivaleva solo ad un bel pomeriggio e non ad un rapimento, in un mondo in cui il suo essere premurosa con Dylan equivale ad ucciderlo. In un mondo che non corrisponde a quello che ha nel cuore e che, appunto, non riesce ad esprimere. Quindi, per vivere ancora con maggiore empatia il trascorso di Suzanne, abbandoniamo ogni focalizzazione esterna e personale e adottiamo il suo focal point. Indossiamo un mantello per rendere un pomeriggio qualunque un po’ più magico, organizziamo un bel weekend di giochi e all’improvviso vediamo il nostro amico, a cui vogliamo molto bene, fuggire da noi stessi e proprio nel momento in cui cerchiamo di salvarlo, ne procuriamo la fine. Cos’è successo? Com’è potuto accadere? Perché Dylan ha chiamato il 911? Come può essere spiegata una tragedia simile a chi della vita conosceva solo fiori e sorrisi? Quanto male è stato fatto a Suzanne, rendendola la causa della morte di un bambino. Lei che voleva solo giocare, niente di più. Cara Suzanne, non hai nessuna colpa e vedere ciò che hai subito e di cui ti hanno resa colpevole è stato straziante.

Come se questo carico di tristezza non fosse già sufficiente per un’unica puntata, Suzanne diviene la vittima della perversione di Humphrey. In una scena policentrica e corale, le guardie si trasformano in schiavisti. E in quell’arena improvvisata, frutto di una mente deviata, Suzanne subisce, di nuovo, gli errori commessi da altri, la pazzia degli altri, non la propria. Aveva ragione De André: dietro ogni scemo c’è un villaggio, intendendo che sono proprio gli altri gli anormali, coloro che approfittano del disagio altrui per sentirsi più forti, per soddisfare il proprio Ego, per supplire al vuoto della propria esistenza. Così piccoli, così bassi coloro che si impegnano a stigmatizzare, offendere, deridere le tante Suzanne del mondo. Diventiamo Suzanne, ancora per una volta, e osserviamo quelle persone così animalesche incitarci alla rissa, ascoltiamo le loro risate, così insopportabili, così irriverenti, così dolorose. Poi succede ciò che volevano e chi ne paga le conseguenze, chi affronta il trauma siamo sempre noi. Noi, nei panni, difficili da indossare, di Suzanne.

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Continuiamo con la canzone Un matto, quasi fosse la colonna sonora di questo episodio, un leitmotiv ricorrente ed esplicativo del profondo dolore espresso in questi sessanta minuti. “E senza sapere a chi dovessi la vita in un manicomio io l’ho restituita: qui sulla collina dormo malvolentieri, eppure c’è luce ormai nei miei pensieri, qui nella penombra ora invento parole ma rimpiango una luce, la luce del sole.” Lolli.
Lolli non vedrà la luce del sole, ma solo persone insensibili che la sederanno e rinchiuderanno in una cella. Psichiatria, reparto A: questo il suo destino. Sì, il cadavere è stato rinvenuto e Lolli ha pagato tutto. Un’altra vittima, come Suzanne, di un villaggio gretto e meschino, in cui chi ha un problema non riceve aiuto, ma solo l’amplificazione del suo dolore. Indimenticabili e insopportabili le lacrime di Lolly. Quel “Signor Healy” urlato con tutta la disperazione possibile, il suo sguardo spaventato e quella voce così forte e allo stesso tempo così fievole, rotta dal pianto, conferisce alla scena un carico emotivo fortissimo, stabilendo con lo spettatore un trasfert che va oltre l’empatia, per approdare alla totale immedesimazione.

Il dramma di Suzanne, la tragedia di Lolli e l’inettitudine suicida di Healy rende questo episodio di Orange Is The New Black un cult dell’intera serie. Vi è un susseguirsi di scene con note drammatiche così accese che ci induce quasi a dire basta, è troppo. Interpretazioni magistrali, come quella di Red con Piscatella, la tristezza di Healy, i sensi di colpa di Alex, la solidarietà di Doggett con Nicky, la preoccupazione di Taystee sono tessere di un unico puzzle: quello del dolore. E noi stiamo lì a guardare la parabola discendente di una società che ha perso su ogni fronte. Con tristezza ma anche con rabbia, con rassegnazione ma anche con sdegno. Stiamo lì a guardare quelle donne che combattono contro la macchina del fango, inermi.

Questo episodio, da cinque porcamiseria e lode, se fosse possibile, è una condanna spietata di un potere malsano, un invito disperato alla disubbidienza, un inno appassionato alla Libertà.

5

 

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