The Good Fight1×09 Self Condemned – 1×10 Chaos

A malincuore giunge l'epilogo di questa prima stagione di The Good Fight, incentrato sulle vicende di Maia e costellato di graditi ritorni e new entry eccellenti nell'universo narrativo creato dai coniugi King.

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Breve ma intenso, come si suole dire. Volge al termine la prima stagione di The Good Fight e possiamo affermare senza tema di smentita che la scommessa dei King e della CBS è stata vinta a mani basse. Pur senza raggiungere l’eccellenza, gli ultimi due episodi dello spin-off di The Good Wife confermano quanto fatto di buono finora e ci lasciano con quella spiacevole consapevolezza di dover aspettare mesi per conoscere l’epilogo della vicenda di Maia, protagonista centrale dello sviluppo della trama orizzontale di questo sprint finale.

Self Condemned

Tra le innumerevoli guest star di The Good Wife, aspettavamo con ansia il ritorno di Dylan Baker e del suo Colin Sweeney, il controverso uxoricida con il vizietto del BDSM che più volte abbiamo visto nella serie madre. Le strade di Colin e Diane si re-incrociano quando Sweeney diventa l’ennesima vittima di brutalità e abuso di potere da parte di un poliziotto, immediatamente successivi ad un fermo stradale. Come c’è da aspettarsi, la posizione di Sweeney non è assolutamente limpida, ma costellata piuttosto da possesso di sostanze stupefacenti e sex-chems party. Se da un lato Diane & soci riescono a incastrare il poliziotto – anche se la risoluzione ci è parsa un po’ troppo sbrigativa – e segnare un punto decisamente importante nella loro lotta contro questo tipo di abusi, dall’altro questo atteso ritorno non raggiunge il risultato sperato, apparendo come una copia alquanto sbiadita delle sue precedenti incursioni, sempre caratterizzate da un’ambiguità morale di fondo impossibile da decifrare o tale da permettere una riabilitazione del personaggio.

The Good Fight 1x09 Self Condemned 1x10 Chaos recensione

Di ben altra caratura è invece l’altro binario su cui si dipana Self Condemned, interamente incentrato su Maia con il supporto di Lucca. Maia è chiamata a rispondere ad una serie di domande dell’FBI così da offrirle la possibilità di chiarire la sua posizione sullo schema Ponzi operato dalla sua famiglia e offrire quante più informazioni possibili.

Il subdolo interrogatorio si rivela piuttosto un avvincente viaggio nella memoria di una giovanissima Maia, che, partendo da fatti apparentemente irrilevanti e di poco conto, realizza amaramente di aver sempre avuto la consapevolezza che qualcosa non tornasse, di sapere inconsciamente che l’operato dei genitori non era pulito. Il suo senso di colpa, il suo dolore, sono palpabili grazie all’interpretazione di Rose Leslie, così come il suo groppo alla gola nel dover filtrare tutto e aggrapparsi a quanta più lucidità possibile nel tentativo di mascherare ogni indugio e salvaguardare la sua posizione e quella dei propri genitori. Ancora una volta, Maia sceglie la famiglia, anteponendola alla sua posizione giuridica, che diventa invece sempre più vacillante. A supportarla, Lucca, perfetta controparte di quello che ormai è un duo consolidato e affiatato, che sa regalarci una bella storia di amicizia tutta al femminile che inevitabilmente ricorda quella tra Lucca e Alicia nell’ultima stagione di The Good Wife.

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Dall’altra parte della scrivania, una guest star d’eccellenza, Jane Lynch, che varca le porte dell’universo televisivo creato dai King con un personaggio a metà tra la Sue Sylvester di Glee e Elsbeth Tascioni, bizzarro ma al tempo stesso autorevole data la caratura del suo personaggio. Un innesto ben riuscito, capace di essere contemporaneamente una temibile minaccia per Maia e il vero comic relief dell’episodio, riuscendo là dove Colin Sweeney centra solo parzialmente l’obiettivo.

4

 

Chaos

Con una trama orizzontale ormai interamente incentrata su Maia e sulle vicende della famiglia Rindell, il resto del cast ha da spartirsi quanto resta del minutaggio di Chaos. Nel farlo, si riallaccia ai temi e ai personaggi dello splendido sesto episodio, Social Media and Its Discontents, riportando seppur brevemente in scena l’ottimo John Cameron Mitchell nei panni di Felix Staples, qui in versione redenta. Al centro della vicenda Lucca, manipolata da un cliente al fine di diventare un vero e proprio trojan horse per introdurre un potente malware nella Rete del Dipartimento di Giustizia per scopi cyber-terroristici, il cui fine ultimo sarà un totale blackout della città. Seppur superflua ai fini del quadro generale, la costruzione della vicenda è avvincente e riesce quantomeno a garantire un’ottima performance per la quasi totalità dello studio, regalandoci anche una Maia che finalmente riesce a tirare fuori gli artigli in aula, capace di tener testa addirittura al capo di Colin. Con somma soddisfazione di Adrian, in versione quasi da mentore in questo episodio, e di Lucca, sinceramente colpita dalla passione della ragazza nel difendere la donna che più volte le è stata di supporto, sia legalmente che a livello personale. La loro amicizia diventa sempre più centrale nelle dinamiche di The Good Fight, culminando nello splendido dialogo di fine episodio.

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Per Diane il focus si sposta invece nella sfera personale: in seguito ad un gesto quasi eroico, Kurt viene ferito e portato in ospedale. Christine Baranski è assolutamente perfetta nell’esprimere l’ansia per l’uomo che ancora ama, nonostante barriere e ritrosie, ma il culmine del pathos si raggiunge in una brevissima sequenza: Diane che giunge in preda all’ansia in ospedale e che scorge il piede di un uomo disteso in barella quasi interamente coperto da una tenda. Chi ha seguito con passione The Good Wife non può non avere avuto una stretta al cuore: la sequenza riecheggia pedissequamente la celebre sequenza dell’episodio in cui si consuma la tragica morte di Will Gardner. Oggi come allora, lo sguardo di dolore di Diane è l’emblema del nostro dolore. Fortunatamente, quella di Kurt è una disavventura a lieto fine, che però sarà il lasciapassare per un ricongiungimento finale con Diane, esplicitato – come quasi sempre accade con lei – più dai gesti che dalle parole. In questo caso, quello spegnere i motori delle luci e dei fari dell’auto davanti casa di Kurt, il loro allontanarsi verso l’uscio di casa, è un tenero quadro che regala finalmente una gioia ad una donna che ha dovuto ingoiare fin qui non pochi rospi. A rovinare quest’ultima scena, il comparto tecnico, con uno sfondo fin troppo artefatto da produzione di serie C che ben poco ha da spartire con la qualità di The Good Fight.

Ma veniamo alla parte più corposa – a livello emotivo – di questo finale: i Rindell. Henry si appresta a dare l’ultimo saluto a Lenore e Maia, prima di darsi alla macchia e condurre una vita da latitante dopo aver appreso che la sua opzione migliore è quella di passare 35 anni in prigione. Un degno epilogo per la sua vicenda, la summa delle sue riprovevoli azioni, non fosse che le nostre certezze vacillano quando sul piatto viene posta l’immunità di Maia. Per tutta la durata dell’episodio perduriamo nell’illusione che alla fine la felicità della propria figlia sarà anteposta alla propria: tutto ce lo fa pensare, i dialoghi, gli sguardi, il pentimento tardivo e la sua ammissione di colpa innanzi alla figlia, complici per di più una splendida fotografia e un’interpretazione sempre ad ottimi livelli per Paul Guilfoyle.

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Ma ancora una volta, per noi come per Maia, la delusione è dietro l’angolo: la sua fuga cambia tutto, diventando una vera e propria bomba che prende forma nel cliffhanger finale, in cui il DOJ si presenta alle porte di una Maia già pronta a quei tre mesi futuri di noia auspicati troppo prematuramente.

Chaos non è forse un finale perfetto, ma porta a casa il risultato, attestandosi su ottimi livelli e dimostrando che The Good Fight è ormai un prodotto che sa reggersi sulle proprie gambe, con una storia tutta sua da raccontare senza attingere all’eredità di The Good Wife, se non in termini di guest star e/o di qualche richiamo nostalgico, che hanno più il sapore di omaggio che di ricerca di facili consensi.

4.5

 

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