True Detective2×01 The Western Book of the Dead

Parliamoci chiaro. Le domande, alla vigilia della seconda stagione di True Detective, per chi come chi scrive era rimasto folgorato dalla prima, erano fondamentalmente due. La prima era relativa alla storia, e coinvolgeva direttamente Nic Pizzolatto, autore formidabile della prima, applauditissima stagione. Sarebbe riuscito lo scrittore quarantenne – che nelle prime otto puntate è stato […]

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Parliamoci chiaro. Le domande, alla vigilia della seconda stagione di True Detective, per chi come chi scrive era rimasto folgorato dalla prima, erano fondamentalmente due.

La prima era relativa alla storia, e coinvolgeva direttamente Nic Pizzolatto, autore formidabile della prima, applauditissima stagione. Sarebbe riuscito lo scrittore quarantenne – che nelle prime otto puntate è stato capace di farci appassionare a una storiaccia di assassini seriali, sbirri psicopatici e prostitute esposte come oggetti sacrificali – ad avvincerci con una storia nuova e completamente diversa? Ricordiamo che la particolarità di True Detective è di essere una serie autoconclusiva, ad ogni giro di boa si cambia registro: nuovo plot, nuovi personaggi, nuovi attori. Cosa avrebbe preso il posto della Louisiana, dei riferimenti South Gothic e delle citazioni underground di Ambrose Bierce, Robert Chambers e Thomas Ligotti?

La seconda domanda riguardava più da vicino i protagonisti. Non si può negare che il valore aggiunto della prima edizione fossero stati Matthew McConaughey e Woody Harrelson, una delle coppie di sbirri meglio assortite mai vista su schermo, piccolo o grande che fosse. Un affiatamento che andava oltre l’antico cliché del poliziotto buono / poliziotto cattivo: nella prima serie gli sbirri erano cattivi entrambi, anche se in modo diverso (tradimenti alla moglie per Woody, ossessione per i delinquenti, insieme ad allucinazioni da alcol, droghe e psicofarmaci per Matthew). Il tutto impreziosito da un’interpretazione stratosferica di McConaughey, forse al di sopra di quel Dallas Buyers Club che gli è valso l’Oscar.

Ecco, a queste due domande ci poniamo l’obiettivo di dare risposta guardando la seconda serie di True Detective. Difficile pronunciarsi sulla prima. Per il momento non possiamo che sospendere il giudizio, anche se qualche cosa possiamo dirla, e lo faremo più avanti. Una prima idea invece ce la siamo fatta sugli interpreti.


Molto si è detto e si è scritto su Colin Farrell. Erano lì tutti pronti con il fucile puntato, ed effettivamente non era un compito facile sostituire un mostro come McConaughey, specie dopo una performance come quella della prima serie. Con lui ripartiamo dal punto in cui ci eravamo lasciati. Il detective è dietro un tavolo, interrogato, e l’immagine iniziale suona quasi come un’autocitazione. Non ci sono più i vaneggiamenti esistenziali di Rust Cohle, ma il detective Ray Velcoro è alle prese con una spinosa causa di divorzio (la sua: dall’altra parte del tavolo c’è l’avvocato che lo assiste, segnalatogli da Vince Vaughn in segno di amicizia, come contropartita di certi favori che lo sbirro gli ha reso). Si riparte da dove ci eravamo lasciati: il vice sceriffo dietro il banco degli imputati. Dura poco, la storia prende subito altre strade. Ma l’attacco è sufficiente per sancire una saldatura con la serie precedente. In quanto a fantasmi e scheletri nell’armadio, il nuovo protagonista non è secondo al personaggio che lo ha preceduto: si attacca spesso alla bottiglia e non disdegna menare le mani, specie con i padri dei bimbi che si prendono gioco di suo figlio.
Tutto sommato, Colin Farrell regge il confronto. Cattivo e pericoloso, riesce a spaventarci come dovrebbe. Specie quando indossa la maschera.

Un discorso a parte meritano Vince Vaughn e Rachel McAdams. Non è chiaro quale criterio abbia guidato la loro scelta. Di sicuro il risultato è che in ogni scena ci aspettiamo di veder sbucare Owen Wilson per completare il sequel di Due Single A Nozze.


Lui è un gestore di sale bingo alle prese con urbanizzazioni ambiziose e rapporti d’affari non meglio chiariti. Lei una detective della Squadra Omicidi, con un padre santone e una sorella impegnata nel porno online, che a tutti costi vorrebbe redimere.
Per quanto si impegnino a fare la faccia cattiva, nessuno dei due risulta credibile fino in fondo. Non bastano le borse sotto gli occhi accenntuate sul volto di lui, o un taglio di capelli sghembo e una decolorazione violenta sui capelli di lei. Quell’aura patinata e rassicurante rimane loro addosso, nonostante gli sforzi di apparire sporchi e cattivi. Per rappresentare il lato oscuro dell’America ci saremmo aspettati altri attori. Altre facce, altri tormenti.

Più interessante invece la vicenda di Taylor Kitsch, il quarto e meno conosciuto protagonista della storia. Abusa di potere per estorcere sesso orale a una fermata, ma poi ha bisogno di aiuti chimici per compiere il dovere coniugale con la sua fidanzata. Ha troppe cicatrici sul torace e gioca alla roulette russa con la moto, lanciandosi in autostrada a fari spenti nella notte. Lo seguiremo con interesse nelle prossime puntate.

Per ora sulla storia non abbiamo molti elementi. Le vicende dei protagonisti sono scivolate in parallelo con pochi punti di contatto. Il finale dovrebbe essere servito a ricongiungere i filoni, e forse adesso la storia è a un punto di svolta, pronta a prendere quota nelle prossime puntate. Ciò che possiamo dirvi sulla trama, e sul lavoro di Pizzolatto, riguarda l’ambientazione, e qui torniamo alla prima delle due domande iniziali.

I riferimenti gotici sono stati sostituiti dalla mistica hippie (“The Western Book of the Dead” è il titolo del primo episodio, e proviene da un trattato filosofico per santoni californiani). Ci sono ancora le riprese in campo lungo. Là dove dominavano le paludi, adesso campeggiano highway e deserti. Siamo in California, nella città immaginaria di Vinci (non fatevi ingannare dal nome: niente Toscana e niente pittori). Abbiamo lasciato la Louisiana, inquadrata con tale insistenza nella stagione precedente da spingere l’autore ad ammettere che il panorama fosse il terzo, sottinteso protagonista della serie. L’intento appare chiaro: rappresentare, oggi come ieri, il lato oscuro dell’America, il suo volto di provincia, le strade sporche e poco patinate. La delinquenza di strada, le perversioni. Serial killer satanisti nella prima serie, sbirri corrotti, siti di chat porno, gestori di bingo a questo giro. Un affresco dell’America, con i suoi tormenti e i suoi lati oscuri. This is my least favourite life, canta Vera Lynn sul finale dell’episodio. E il messaggio arriva chiaro allo spettatore.


Due note a margine prima di chiudere. La prima è per la sigla iniziale. Siamo passati da T-Bone Burnett a Nevermind di Leonard Cohen. Difficile, se non impossibile, fare di meglio della prima stagione. Ma di fronte a Leonard Cohen non si può far altro che inchinarsi.

La seconda è per Sky, e per la sua scelta di trasmettere gli episodi in contemporanea con gli States, completi di sottotitoli. Scelta saggia e lungimirante, da ripetere più spesso. Del resto, senza questa scelta non saremmo qui a parlarvi del lato oscuro dell’America, e dei tormenti di Nic Pizzolatto.

Il voto è 4 porcamiseria su 5 di stima e di attesa. Per il momento non ci sono ancora elementi sufficienti per esprimersi. Ma l’ambientazione (e parte del cast) ci piace. Certo, il termine di paragone è altissimo, e il confronto sarà molto duro. Ma non disperiamo: abbiamo fiducia in Nic.

4

 

Come sempre, vi invitiamo a dire la vostra sul primo episodio di True Detective qui nei commenti oppure sui social network (seguiteci su Facebook e Twitter, infedeli!) usando l’hashtag #Serialfreaks!


 

Su Twitter, come sempre quando si tratta di una serie di questa portata, i pareri sono discordanti. C’è chi ricorda grandissime serie del passato…

…e chi, come noi, si riserva un giudizio più approfondito più avanti.

Poi vabbè, ci sono anche quelli che scavano a fondo, riuscendo a trovare livelli di lettura diversi e inusuali.

https://twitter.com/nonnoteo_/status/612917386279297024

Porcamiseria

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