True Detective2×04 Down Will Come

Non so se avete presente Michael Mann. I suoi film sono un elogio di manierismo (in inglese manierismo si traduce curiosamente con “mannerism”, termine che si presta involontariamente a un gioco di parole con il cognome del regista). Infiochettati in una cornice sontuosa di fotografia, colonna sonora e ambientazione, i film di Mann regalano molto all’occhio […]

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Non so se avete presente Michael Mann. I suoi film sono un elogio di manierismo (in inglese manierismo si traduce curiosamente con “mannerism”, termine che si presta involontariamente a un gioco di parole con il cognome del regista). Infiochettati in una cornice sontuosa di fotografia, colonna sonora e ambientazione, i film di Mann regalano molto all’occhio dello spettatore, anche se alcune volte finiscono per perdere colpi sul versante dell’azione. La sua opera più riuscita è Collateral, unico caso che si ricordi di un Tom Cruise che risulta credibile nel ruolo di cattivo.

Ci viene da pensare sempre di più a Michael Mann, guardando questa seconda stagione di True Detective. La cornice è sontuosa (non ci viene in mente aggettivo più calzante), soprattutto per effetto delle riprese aeree, che – dovrebbe essere ormai chiaro – si collocano in cima al nostro gradimento di spettatori. Nella maggior parte dei casi, le storie di Mann ruotano intorno a due protagonisti maschili, a volte in contrasto tra di loro (dicotomia buono / cattivo), altre alleati nel combattere dallo stesso lato della barricata.

Per fotografia, produzione ricchissima e cura dei dettagli ci risulta spontaneo accostare True DetectiveHeat – La Sfida, megaproduzione di metà Anni Novanta, in cui Robert De Niro e Al Pacino gigioneggiavano nel ruolo di protagonisti e Michael Mann si cimentava dietro la macchina da presa. Pensiamo sempre più spesso a Heat, guardando gli episodi di questa seconda stagione: la cura delle riprese e i drammi dei protagonisti vincono spesso il confronto con la dinamica dell’intreccio. Mann ci mostrava le complicazioni familiari di Vincent Hanna e Neil McCauley (i due protagonisti, interpretati rispettivamente da Pacino e da De Niro). Indugiava a tal punto sui lunghi dialoghi e le inquadrature mozzafiato, che il poliziesco faticava ad avanzare.

Succedeva anche in Miami Vice, sfortunato esempio di trasposizione cinematografica di serie. Guarda caso con Colin Farrell tra i protagonisti, quella volta biondo e senza baffi.

Pizzolatto, che rispetto a Miami Vice compie l’operazione inversa, calare cioè sui ritmi della serie il respiro e la struttura di un’opera cinematografica, prosegue nella sua dettagliata narrazione dei traumi dei quattro protagonisti. Volendo sintetizzare, il problema è concentrato intorno al tema della paternità: la paternità travagliata e fino a questo punto non riuscita di Frank Semyon, la paternità dubbia e spesso negata di Ray Velcoro, la paternità imprevista e inattesa di Paul Woodrugh (in questo caso resa ancora più complicata dalle incertezze del protagonista in materia sessuale), la paternità contestata da Ani Bezzerides, che identifica nel padre santone l’origine di tutti i mali, personali e familiari (la quarta puntata ci regala un nuovo atto della sua crociata per salvare la sorella dalla condanna della prostituzione online). Che l’ossessione così ricorrente per un argomento possa dipendere da traumi pregressi dell’autore in materia? Non amiamo la piscologia d’accatto, per cui passiamo oltre.

I drammi privati dei personaggi attraggono più dell’intreccio. Alzi la mano chi si domanda il nome del colpevole, o se a qualcuno frega di scoprire chi ha assassinato Caspere. Siamo sicuri che sono in pochi. A questo punto della prima stagione eravamo già avvinti dalla ricerca del serial killer, e soprattutto eravamo stati rapiti dai due protagonisti (per dire la differenza di livello tra le due edizioni).

Non siamo granché interessati a scoprire il colpevole: le indagini si snodano come intermezzi quasi fastidiosi tra le vite private dei protagonisti, e ammettiamo anche qualche difficoltà nel seguire i dettagli dell’indagine. Ci appassoniamo di più alla messinscena e ai dialoghi, piccole meraviglie come la collezione da record di Fuck, sparata da Woodrugh a inizio puntata. O le immancabili frasi a effetto, che costituiscono una perversione neanche tanto nascosta di chi scrive. Stavolta ci siamo segnati:

 “I’d rather be wrong and first than right and second.” (Ray Velcoro, dialogo in macchina con Paul Woodrugh)

“Those moments, they stare back at you. You don’t remember them, they remember you.” (Ani Bezzerides, durante la solita paternale alla sorella)

Per fortuna, l’autore ha deciso che la rievocazione di Heat doveva essere completa, per cui ha deciso di riproporne anche la scena madre, una sparatoria per strada che ai tempi, quando vedemmo il film al cinema, ci impressionò per la veridicità dei colpi di arma da fuoco. Pizzolatto fa lo stesso, ravvivando il finale di puntata con una fiammata di adrenalina, movimentando con una pioggia di proiettili, sangue e vetri rotti un episodio per il resto anonimo e interlocutorio.

In definitiva, i porcamiseria per questo episodio sono 3. La storia langue, e anche quando compare, non riesce ad appassionarci come dovrebbe. Al momento prevalgono i drammi personali e i manierismi: confidiamo nelle prossime puntate per uno scatto d’orgoglio.

3

 

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I tweet su questo episodio di True Detective sono più o meno incentrati sulla sparatoria…

… ma c’è spazio anche per considerazioni tra il serio e il faceto…

Porcamiseria

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