True Detective2×08 Omega Station

Season Finale Per fortuna il mondo è pieno di bravi ragazzi. Gente volenterosa, studiosa, pronta a sacrificarsi per il prossimo. Ne abbiamo avuto prova qualche giorno fa, quando Il Post ha pubblicato questa fondamentale guida per colmare le lacune accumulate negli episodi precedenti. Grazie a questo preziosissimo contributo, siamo riusciti ad orientarci nello svoglimento dell’episodio finale, e […]

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Per fortuna il mondo è pieno di bravi ragazzi. Gente volenterosa, studiosa, pronta a sacrificarsi per il prossimo. Ne abbiamo avuto prova qualche giorno fa, quando Il Post ha pubblicato questa fondamentale guida per colmare le lacune accumulate negli episodi precedenti. Grazie a questo preziosissimo contributo, siamo riusciti ad orientarci nello svoglimento dell’episodio finale, e abbiamo realizzato le seguenti verità:

  • La seconda stagione di True Detective era stata preparata con una complessità di trama degna delle aspettative che la prima serie aveva suscitato;
  • La stessa stagione ha deluso gran parte delle aspettative di cui sopra;
  • L’autore si è fatto prendere la mano. Ha accumulato troppi personaggi, plot paralleli e filoni di indagine. Troppa carne al fuoco, per sperare di riuscire a dipanare la matassa in soli otto episodi (la durata extra dell’ultima puntata, 90 minuti, conferma questa sensazione). Dovendo concentrare tanto materiale in poco tempo, è finita che ogni riferimento è stato solo accennato, e successivamente dato per scontato. Troppa fiducia nell’intuito dello spettatore medio. Sembra che Pizzolatto si sia detto: “Ma in fondo che bisogno ho di spiegare ogni cosa? A cosa servono i social e i siti di recensioni, se non a chiarire i punti oscuri della trama?”

In realtà un modo c’era, di rendere tutto più fluido e intellegibile. Sarebbe bastato non sprecare la maggior parte dei primi quattro episodi menando il can per l’aia con le tragedie personali dei protagonisti, buona parte delle quali (il rapporto di Woodrugh con sua madre, la crisi matrimoniale di Semyon, il rapporto difficile di Bezzerides con gli uomini) si sono rivelate poi inutili. Si fosse focalizzata da subito sull’intrigo, True Detective sarebbe risultata più avvincente, comprensibile e non avrebbe smarrito per strada gran parte dell’interesse del pubblico.

Dall’episodio finale abbiamo ricavato un’ulteriore certezza, peraltro già emersa nelle puntate precedenti, e culminata nelle scene di comicità involontaria di cui si parlava la scorsa settimana: la selezione dei protagonisti, su cui tanto si era discusso nei mesi precedenti la messa in onda, non è stata impeccabile. Il più convincente è stato proprio Colin Farrell, su cui si era concentrata la maggior parte dei dubbi. L’eredità di McConaughey era pesante, ma lui (con baffo o senza baffo) se l’è cavata: con quella faccia e gli eccessi che gli conosciamo fuori dal set, è risultato credibile nel ruolo del poliziotto corrotto e autodistruttivo. Molto meno lo sono stati Vince Vaughn e Rachel McAdams, le cui facce troppo patinate stonavano palesemente con i personaggi che erano chiamati a interpretare. Nelle scene in cui comparivano, si avvertiva una nota discordante, un elemento falso che rendeva la storia meno credibile. Taylor Kitsch si è fermato a metà strada.
L’ultima puntata ha regalato nuovi momenti di comicità e aperto falle nella sceneggiatura. Il lancio delle fedi di Frank Semyon e signora (nel caso di lei completato da un anello di diamanti dal valore non trascurabile) fa il paio con il dialogo successivo alla morte di Blake nel penultimo episodio. Troppo cinematografica per essere realistica. Soprattutto perché facciamo fatica a credere che nel momento in cui il marito allestisce strategie di guerra per recuperare del denaro con il quale costruirsi una nuova vita, la moglie getti al vento un anello del valore di migliaia di dollari (senza che il consorte muova un dito per provare a recuperarlo).


Anche la scena della stazione ha lasciato molti dubbi: ha senso che il ricercato Velcoro, la cui immagine viene trasmessa da tutti i telegiornali, decida di mimetizzarsi tra la folla con un cappello da cowboy (unico in tutta la stazione)? È credibile che Burris, tenente della polizia la cui presenza sul luogo immaginiamo non fosse ufficiale, si metta a sparare in prima persona contro Velcoro e l’aggressore di Holloway? È credibile che gli agenti intervenuti a seguito della sparatoria uccidano il poliziotto Holloway (che era stato aggredito e che tra l’altro aveva già eliminato il suo aggressore) e lascino scappare i ricercati Velcoro e Bezzerides?

Non ci convince nemmeno Frank Semyon nella scena in cui vengono recuperati i soldi di Osip. Senza nessun passato in polizia o nell’esercito, si muove con la precisione e l’esperienza dei reparti speciali che abbiamo visto all’opera contro Bin Laden in Zero Dark Thirty.


A parte i momenti di ilarità e i tanti interrogativi, il finale ha regalato delle certezze a lungo inseguite: chi era il killer con la maschera d’uccello, chi ha ucciso Caspere, se Velcoro fosse veramente il padre di suo figlio. In più, ci ha concesso qualche altra scena madre: la morte del vecchio Chessani in stile Scarface, la scena della stazione già citata, il finale incrociato con inseguimento tra i boschi e allucinazioni nel deserto.

La puntata si è aperta e si è chiusa con due riferimenti alla prima stagione.
Nella scena iniziale, Ray Velcoro e Ani Bezzerides si sono prodotti in due monologhi in stile Rust Cohle. Il legame con la prima stagione è stato rinsaldato: due protagonisti potevano essere meglio di uno, almeno nelle intenzioni.
La chiusa è stata ancora in una notte stellata, stavolta in una location più esotica dell’ospedale di McConaughey e Harrelson, ma pur sempre con un messaggio che lasciasse aperta la porta alla speranza. “Abbiamo il mondo che ci meritiamo” si è trasformato in “Meritiamo un mondo migliore”. Chissà che il finale non volesse lasciare aperta anche la speranza di un sequel con gli stessi protagonisti. Per ora, stando alle informazioni che abbiamo, non è previsto. Ma il caro vecchio Nic ci ha insegnato che dobbiamo essere pronti a qualsiasi eventualità.

Finale con l’abituale citazione, che in questo caso è addirittura un sermone. Possiamo intitolarlo “Messaggio mai inviato a un figlio forse non mio”. Autore e interprete: Ray Velcoro.

A turn here, a turn there, and it goes on for years. Becomes something else. I’m sorry, you know, for the man I became… the father I was. I hope you got the strength to learn from that. And I hope you got no doubts how much I loved you, son. And you’re better than me. If I had been stronger… I would have been more like you. Hell, son… if everyone was stronger, they’d be more like you.

Tre i porcamiseria per il season finale che valgono anche per la stagione: il finale continua a non convincere. Il quadro ci è più chiaro. Si poteva fare di più. Ma non ci sentiamo di essere del tutto negativi. Con questi mezzi, queste idee e queste aspettative si possono regalare ancora grandi soddisfazioni. Appuntamento alla prossima stagione.

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