True DetectiveSeason 1 So Far

Season Recap Poche serie TV sono state in grado di farsi apprezzare in così poco tempo da un così vasto pubblico come nel caso di True Detective, crime drama duro e intenso, vera sorpresa del 2014 televisivo. In attesa di gustarci la seconda stagione, in arrivo a breve sugli schermi americani sintonizzati sull’infallibile HBO e in contemporanea […]

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Poche serie TV sono state in grado di farsi apprezzare in così poco tempo da un così vasto pubblico come nel caso di True Detective, crime drama duro e intenso, vera sorpresa del 2014 televisivo. In attesa di gustarci la seconda stagione, in arrivo a breve sugli schermi americani sintonizzati sull’infallibile HBO e in contemporanea in Italia su Sky Atlantic, andiamo a ricapitolare cosa ci è piaciuto (e cosa no) dei primi 8 episodi, e soprattutto andiamo a capire perchè di True Detective proprio non si può e non si deve fare a meno.

Si parte con i credits e già si intuisce che non si tratta di una serie come le altre: le note di una logora Far from any road (The Handsome Family) ci accompagnano in un fumoso viaggio fatto di affascinanti doppie esposizioni. Troppo spesso, parlando di serie TV, se ne sottovaluta il valore estetico; nel caso di True Detective invece, è bene sottolinearlo. A tal proposito possiamo dire che la fotografia calda e ruvida di Adam Arkapaw costituisce uno degli elementi chiave del successo della serie: riflette infatti in pieno la natura oscura e paludosa della provincia della Louisiana, fatta di redneck, birre e sudore, in cui la vicenda è accuratamente ambientata.

Insieme all’ambientazione iniziamo a capire meglio la genesi di questa serie: Nic Pizzolatto, creatore e unico sceneggiatore, è infatti originario proprio della Louisiana, e riesce quindi a trasporre le atmosfere del polveroso stato americano in maniera attenta e appassionata.
Ci riesce anche grazie al prezioso lavoro alla regia di Cary Fukunaga (vincitore al Sundance festival con Sin Nombre nel 2009 e regista del più noto Jane Eyre nel 2011).
Vale la pena soffermarsi su questi due nomi perchè, al contrario di quanto succede solitamente, sono gli unici due artefici del successo di True Detective: avere un solo sceneggiatore e un solo regista per tutta la durata della serie contribuisce a dare al prodotto un taglio decisamente cinematografico, quasi come fosse un lungo film magistralmente riadattato per la TV, calibrando e distribuendo attentamente avvenimenti, colpi di scena, e cliffhanger tra i vari episodi.

Per quelli di voi che non hanno ancora avuto il piacere di guardare la prima stagione di True Detective è il momento di scoprire finalmente le carte riguardo la trama e i personaggi.
I due protagonisti sono il detective Rust Cohle (Matthew McConaughey) e il detective Martin Hart (Woody Harrelson), che troviamo nel 2012 interrogati da due giovani agenti della Polizia di Stato della Louisiana riguardo il brutale caso di Dora Lange, su cui Cohle e Hart avevano investigato nel lontano 1995: si tratta di un efferato caso di omicidio ricco di elementi simbolici e riferimenti rituali.

I due giovani agenti pensano di aver trovato dei collegamenti tra quel caso (irrisolto) e un nuovo omicidio; siamo alle prese con un serial killer quindi, e chi l’avrebbe mai detto? In questo senso la storia sembra quasi già vista: due detective dai caratteri diversi alle prese coi demoni del proprio passato ed un killer da scovare tra mille difficoltà.
Questo dunque il punto di partenza per una doppia ricerca investigativa: quella del colpevole e quella che scava nel profondo dell’anima dei nostri due protagonisti, scoprendone debolezze, vizi, ossessioni e inquietudini.

Rust Cohle è un lupo solitario, tormentato, che vive l’attenzione morbosa per i propri casi tra allucinazioni e digressioni nichiliste. Marty Hart sembra inizialmente la perfetta controparte, il poliziotto modello, forse meno geniale del compagno, ma decisamente più diligente: anche lui eppure, nasconde con ipocrisia una vita privata tutt’altro che perfetta.
Lo sbalzo temporale, ripetuto in tutti gli episodi eccetto nei risolutivi ultimi due, permette un andamento narrativo incalzante e articolato, che ci permette di analizzare il tormentato rapporto tra i due protagonisti e la loro evoluzione negli anni.
In qualche modo, il continuo passaggio dal 1995 al 2012 ci imbriglia nel loro mondo, ci fa rimanere bloccati nell’indagine come lo sono loro: “time is a flat circle” è solito affermate Rust, che al di là delle considerazioni più filosofiche, può significare un orrendo ripetersi di crimini senza via d’uscita per lui, ma anche un continuo depistaggio nella risoluzione del caso (e della serie) per noi.

Lo sviluppo narrativo infatti, pur essendo molto calibrato tra le varie puntate, non è il massimo della linearità: tanti infatti sono gli indizi, i dettagli, i fascicoli da sfogliare e i personaggi sospetti, e non tutti gli elementi saranno utili per la ricerca del colpevole, ricordando in un certo senso il continuo depistaggio dell’indagine di Zodiac di David Fincher. Se proprio vogliamo trovare il punto debole della serie dunque, dobbiamo ricercarlo nel finale: quando tutti i nodi vengono al pettine resta l’amaro in bocca per quello che poteva essere ed invece non è. Da una costruzione molto articolata ci si aspetta una risoluzione altrettanto ricca e questo invece non avviene, sia per quanto riguarda l’identità dell’assassino, sia nel modo troppo didascalico in cui i due detective affrontano la fine del caso.
Pizzolatto, dall’indiscusso talento, paga forse la poca esperienza (prima di True Detective ha lavorato per la televisione alla sceneggiatura di due episodi di The Killing e nient’altro), e si lascia andare ad una risoluzione forse troppo semplice per le premesse create.

Non possiamo in questo caso usare la scusa della scrittura in divenire (come nell’ormai classico caso di Lost, in cui non tutto ha una spiegazione finale perchè neanche gli autori sapevano inizialmente dove sarebbe andata a finire la storia), possiamo prendere atto però che in fondo a Pizzolatto non interessa necessariamente mettere insieme tutti i tasselli del puzzle, interessa piuttosto che con i tasselli a nostra disposizione si riesca ad effettuare un’indagine sulla natura umana, una profonda analisi psicologica sui personaggi e, perchè no, su noi stessi.

True Detective è dunque un viaggio allegorico tra l’orrore del crimine investigativo e la sua origine più metafisica. I punti di forza sono chiari, l’andamento lento (ma mai noioso) alterna attimi di intensità emotiva a scene più esplicitamente adrenaliniche; i colpi di scena non mancano, le false piste neanche, così come una scrittura solida e ricca di riferimenti culturali più e meno colti, e un reparto tecnico da far invidia a grandi produzioni cinematografiche.
E tanto si è parlato anche della regia che, con l’ormai celebre piano sequenza di 6 minuti nel finale della quarta puntata, alza l’asticella ad un livello oggi difficile da superare.

Come se non bastasse, tutte le interpretazioni sono magistrali, a cominciare da quel McConaughey che a partire dal sottovalutato Killer Joe del 2011 sembra aver definitivamente cambiato rotta, abbandonando le commedie romantiche e dimostrando al mondo di essere un attore coi controcazzi; il 2014 è stato senza ombra di dubbio il suo anno, con la consacrazione agli Oscar per Dallas Buyers Club che fa da ciliegina sulla torta dopo le numerose nomination collezionate per True Detective. Si muove su altissimi livelli anche Harrelson, ma quando mai non lo fa?

Non aspettatevi di rivedere Rust e Marty nella prossima stagione: True Detective infatti propone un format antologico, un po’ come succede in American Horror StoryPer intenderci: nuova storia, nuovi personaggi, e in questo caso anche nuovo cast. Speriamo solo che Nic Pizzolatto riesca ancora una volta nel piccolo miracolo che ha già compiuto: incrociamo le dita e intanto assegnamo 5 meritati Porcamiseria a questo gioiellino.

5

 

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