Game Of Thrones | SpecialiCosa resterà del Trono di Spade?

Il Trono di Spade ha cambiato la televisione, ma quali sono gli elementi che hanno reso questa serie un punto di svolta nella serialità televisiva? (E no, non tette e culi... Non solo.)

Il 2011 è stato un anno cruciale per la serialità televisiva, che si arricchì di titoli del calibro di Black Mirror, American Horror Story, Homeland, Person of Interest e molti altri che fecero non solo la fortuna delle emittenti che le trasmettevano, ma diedero un contributo fondamentale alla nuova narrazione che venne inaugurata in quel periodo e che trovò in Game of Thrones non solo il principale rappresentante, ma anche l’avvio di una nuova era della TV.

Il Trono di Spade ha infatti rivoluzionato il mondo dell’entertainment caratterizzandosi fin da subito come serie evento, crescendo di anno in anno fino all’epilogo, previsto per la prossima settimana. Sebbene sia buona norma parlare di un prodotto seriale nella sua interezza, crediamo di fare un favore alla serie se ci focalizziamo sul percorso che l’ha portata fin qui piuttosto che sulle altalenanti (a voler esser buoni) fortune che stanno condizionando l’ultima stagione. Il cuore vero della serie, inoltre, risiede proprio nelle sue fondamenta storiche, quelle quattro stagioni iniziali che ne hanno consolidato la mitologia e stratificato gli eventi. Cerchiamo dunque di capire cosa c’è dietro il successo incredibile di questo show (al di là dell’imprescindibile contributo dei libri) lungo un viale dei ricordi costeggiato da diversi fattori.

La sigla

Della genesi della melodia ne abbiamo parlato qui, ma a rendere unica l’apertura di ogni episodio non è solo il tema musicale di Ramin Djawadi quanto piuttosto la commistione di epicità che sottende la costruzione in tempo reale della mappa di un mondo che impariamo pian piano a conoscere, la cui geografia sappiamo a memoria meglio delle regioni italiane. Una cartografia interattiva che non è solo passiva ma mette lo spettatore al centro degli eventi, spesso integrandoli nel “montaggio” delle città: non c’è cold open in Game of Thrones, la sigla è l’inizio vero e proprio, delle quinte che vengono edificate puntualmente per tagliare fuori il mondo e immergerti nella visione, con la sfera armillare a raccontare la storia, a tenere il filo degli eventi.

Gli scenari

Che sia il freddo Nord o l’assolato Sud, il Trono di Spade è sempre riuscito a caratterizzare con qualità gli ambienti della narrazione, tanto da rimpolpare il turismo delle regioni in cui si svolgono le riprese (Croazia, Islanda e Spagna su tutte). Rispetto alle verdi radure della Nuova Zelanda del Signore degli AnelliGame of Thrones mostra (per forza di cose, data la differente longevità) una varietà geografica più marcata, necessaria anche a rendere l’importanza delle stagioni astronomiche nella narrazione. Alle spiagge di Dorne, ai monti dell’oltre-barriera e alle piovose coste delle Isole di Ferro, la serie ha affiancato delle precise architetture, rafforzate (come detto) dalla sigla, che sono parte integrante delle identità di ogni città: la Red Keep di King’s Landing, il cupo castello di Dragonstone, l’umile trono del Re del Nord a Winterfell. E poi lui, ovviamente, il fulcro attorno a cui ruota tutta la narrazione (almeno nella serie televisiva): l’Iron Throne, iconica metonimia di un’autorità fondata sulla violenza, tanto solido nella struttura quanto instabile nell’ospitalità.

La politica

Fin dal pilot il Trono di Spade si è contraddistinto per la rilevanza data alla trama politica e ai giochi di potere che danno per l’appunto il titolo alla serie. Dalle ingenuità di Ned Stark alle manipolazioni di Petyr Baelish e in mezzo tanti modi di intendere la gestione del potere (violento, misericordioso, fanatico, incerto): un pragmatismo politico che mette sullo sfondo il popolo – sempre passivo e sottomesso alle diverse figure che si alternano nell’indossare la corona, carne da macello nelle numerose battaglie – e che tiene conto (quantomeno nelle prime stagioni) del reale ago della bilancia bellica, il ricorso al credito, alla pecunia. Quando ancora sussisteva un certosino equilibrio tra la parte smaccatamente fantasy e il realismo che compensava quel salto nell’incredulità, Game of  Thrones riusciva ad affascinare anche chi il fantasy non l’ha mai praticato, dando vita, contemporaneamente, a sperticati paragoni con l’attualità politica e infiltrandosi finanche nel linguaggio di quel settore.

I personaggi

Il vero fulcro della narrazione del Trono di Spade è rappresentato indubbiamente dai suoi protagonisti: ciascuno dei personaggi messi in scena viene tratteggiato con dovizia di particolari e l’intera serie rappresenta il percorso che i nostri fanno, la loro evoluzione – nella maggior parte dei casi coerente con le premesse. La stratificazione delle sfaccettature caratteriali cresce con lo spettatore e ogni stagione ha quasi sempre aggiunto un tassello fondamentale rispetto alla psiche dei protagonisti. O li ha tolti di mezzo.

Di certo parte del successo della serie è (stata) dovuta a quel sentimento carico di ambiguità che ci faceva percepire qualsiasi personaggio in pericolo di vita: la decapitazione di Ned, le Nozze Rosse, la fine di Oberyn Martell e di Joffrey Baratheon. A questa caratterizzazione sicuramente hanno contribuito i dialoghi, che prima ancora dei toni fantasy sono stati pensati per la condivisione: abbondanza di frasi ad effetto, battute al limite del politicamente scorretto e motti familiari facilmente depredabili dalla Rete. Proprio la forza dei personaggi ha dato credito ai rapporti tra di loro, specialmente quelli parentali.

Il gioco dei troni è in fin dei conti un esteso conflitto tra famiglie che vediamo decimarsi per la scomoda ma ambita seduta, latrici del fardello dei padri e destinate a concludere nel sangue quel che resta delle stirpi

In mezzo (ma non per questo meno secondaria) vi è la trama fantasy: un esercito di non-morti pronto a colpire, tre draghi inferociti, divinità capricciose pronte a manifestarsi all’ultimo secondo e altri animali fantastici. Un genere che già contava molti fan, ma che ha creato in connubio con gli elementi suddetti un’incredibile miscela di interesse, capace di monopolizzare l’ambiente televisivo e non solo. Chi è venuto dopo ha dovuto necessariamente fare i conti con questa nuova narrazione e ciò ha spinto la HBO ad investire la più imponente cifra mai spesa per uno show televisivo, puntando su un marketing da blockbuster cinematografico.

Con Game of Thrones si è probabilmente chiusa la seconda era della serialità televisiva, quella più consistente in termini di cambiamenti paradigmatici, cominciata con Lost

Quale che sia il futuro (ben avviato) delle serie, al netto delle polemiche sull’ultima stagione e dell‘innegabile superficialità di alcune recenti sviste che confermano un abbassamento dello standard qualitativo, il Trono di Spade ha saputo sempre compensare più che dignitosamente i fisiologici difetti che uno show come questo si porta dietro, valorizzando al massimo i suoi punti di forza e cambiando per sempre l’immaginario televisivo.

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