MindhunterMindhunter Season 2: la bilancia della giustizia

Season Recap Mindhunter cambia direzione e lo fa sacrificando alcune peculiarità e alterando delicati equilibri narrativi. Cosa resta del thriller psicologico?

7.0

La seconda stagione di Mindhunter porta nuovamente la firma di David Fincher alla regia (delle prime tre puntate), a cui si affianca Charlize Theron per la produzione esecutiva. L’impegno per mantenere alto il livello qualitativo è evidente, in forza anche dei numerosi mesi che sono intercorsi tra una stagione e l’altra; tuttavia, pur ponendosi su un livello oggettivamente superiore a molte concorrenti, questa seconda narrazione di Mindhunter sacrifica il perfetto equilibrio che caratterizzava il primo arco narrativo, sbilanciandosi pericolosamente su alcuni elementi che ne confondono l’identità.

Nella recensione del primo episodio di questa stagione avevamo preventivato una serie di scontri interni alla squadra di studiosi comportamentali dell’FBI. Sebbene non si concretizzino in forme estreme, questi conflitti emergono man mano che la trama si districa, coinvolgendo i due protagonisti principali, che cominciano a dubitare ciascuno del proprio collega. Parallelamente, soprattutto nella seconda parte della stagione, ad essere messo alla prova dei fatti è il metodo di profilazione che i nostri hanno ideato, comportando un’evidente diffidenza da parte di quasi tutti gli attori non coinvolti nella squadra.

Nell’arco dei nove episodi la serie cambia completamente impostazione, attenuando pian piano gli elementi caratteristici della prima stagione: le interviste, fulcro della narrazione fino ad ora, diminuiscono e poi passano in mano per breve tempo a Wendy Gregg, prima di finire dimenticate negli ultimi episodi. Al loro posto un fisiologico confronto con la realtà, che vede Holden Bill tentare di acciuffare un serial killer ad Atlanta per mostrare la validità del loro metodo. Anche nella prima stagione avevamo questo imprescindibile bilanciamento tra teoria della profilazione e applicazione pratica nell’identificazione di un killer, tuttavia vi era una ponderazione tra questi due poli, con Ford e Tech impegnati da una parte a intervistare pericolosi criminali e dall’altra ad esaminare un caso che al massimo occupava due/tre episodi.

Nella seconda stagione la serie cambia completamente impostazione: le interviste, fulcro della narrazione fino ad ora, lasciano spazio a un fisiologico confronto con la realtà, per dimostrare la validità del metodo di profilazione.

La preponderanza della trama di Atlanta, invece, per quanto interessante (anche nello stuzzicare il nervo scoperto della questione razziale statunitense) sbilancia l’equilibrio della serie sulla parte pratica dello studio, sacrificando le interviste coi criminali e soprattutto i confronti tra gli agenti speciali e i killer, che erano fondamentali nell’approfondimento non solo dei protagonisti, ma anche di questi eccessivi e violenti personaggi realmente esistiti. L’intervista con Charles Manson in questa stagione ne è un esempio, permettendoci di avere uno scorcio del dolore che attanaglia Bill ma al contempo illuminandoci sulla perversa personalità del killer; non bastano in sostituzione, purtroppo, i confronti tra Wendy e Gregg e i galeotti, sia per l’assoluta inconsistenza caratteriale del secondo, sia perché non sufficientemente spinte, ma fermatesi dopo appena due tentativi.

Questo è uno dei motivi per cui la prima parte della stagione è la più riuscita, più fedele all’impronta della serie che siamo abituati a conoscere. A ciò si aggiunga l’interesse per la piega che le indagini psicologiche stavano assumendo, le quali, dopo una prima stagione passata ad analizzare singoli assassini, stavano cominciando adesso ad approfondire le dinamiche di gruppi di killer e manipolazioni da parte di leader deviati. Tale aspetto raggiunge il climax con l’intervista a Manson, ma finisce per scemare non appena gli episodi imboccano la strada per Atlanta.

L’equilibrio tra la componente thriller e quella psicologica si sposta repentinamente sulla prima, sacrificando ulteriori approfondimenti sui protagonisti (che comunque rimangono tridimensionali). Alla fine della stagione troviamo i tre ciascuno alle prese con la propria disillusione: Holden non riesce e non vuole leggere il risultato di Atlanta come una vittoria, cominciando a percepirsi come mezzo e non fine dell’interesse dell’FBI, anche a scapito della giustizia per dei poveri innocenti assassinati; Wendy si trova ferita nel momento di maggiore apertura verso una persona fidata, crollando nuovamente in una spirale di cinismo che la isola dal mondo esterno; Bill scopre suo malgrado di non riuscire a conciliare pesanti problemi familiari con gli impegni lavorativi.

L’aggiunta della trama di Brian Nancy, inventata di sana pianta rispetto all’impianto realistico della serie, ha il pregio non solo di mantenere alta la tensione, ma soprattutto di calmierare gli istinti facilmente sollecitabili nel momento in cui si parla di killer seriali senza considerarne il contesto psicologico (che, si badi bene, non è mai un’attenuante) e che trovano un riflesso nel macabro interesse e nei commenti di pancia di coloro che parlano con Bill del suo lavoro.

Nonostante alcune superficialità (gli attacchi di panico misteriosamente scomparsi di Holden, ad esempio) la serie riesce comunque nel suo intento di raccontare l’evolversi della profilazione psicologica criminale, affidandosi a un casting di livello che risalta particolarmente nelle fisionomie dei killer.

Chi non è avvezzo alla storia della criminalità seriale negli Stati Uniti potrebbe avere qualche difficoltà a seguire coerentemente i vari casi che vengono citati e Mindhunter non si prende la briga di facilitare le cose (per cui suggeriamo un’infarinatura superficiale in rete). Lo stesso BTK, il killer di cui seguiamo il percorso nei cold open e nella chiusura di stagione, difficilmente rientrerà nei prossimi arresti, per cui chi sperava di vederlo in breve tempo dietro le sbarre farà bene a mettersi comodo (rinnovi della serie permettendo).

  • 7.5/10
    Storia - 7.5/10
  • 7/10
    Tecnica - 7/10
  • 6.5/10
    Emozione - 6.5/10
7/10

Summary

Mindhunter abbandona progressivamente le interviste per testare nella pratica il metodo di profilazione: una svolta che vira pesantemente sul thriller e sbilancia gli equilibri che finora avevano orientato la caratterizzazione dei personaggi. La serie continua a convincere, ma non ai livelli della prima stagione.

Porcamiseria

7

Mindhunter abbandona progressivamente le interviste per testare nella pratica il metodo di profilazione: una svolta che vira pesantemente sul thriller e sbilancia gli equilibri che finora avevano orientato la caratterizzazione dei personaggi. La serie continua a convincere, ma non ai livelli della prima stagione.

Storia 7.5 Tecnica 7 Emozione 6.5
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