The Walking Dead7×03 The Cell

Si fa finalmente qualche passo avanti in The Walking Dead, rispetto al precedente "The Well". In questo episodio, forte e dal ritmo serrato, entriamo più a fondo nella mente traumatizzata di Daryl e scopriamo lo sconvolgente passato di Dwight.

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Anche questa settimana The Walking Dead prepara il terreno per gli eventi futuri, con un episodio interamente incentrato sul fan favorite Daryl, e sul suo percorso di elaborazione del lutto e dei sensi di colpa derivanti dalla morte di Glenn a seguito degli eventi della premiere.

Ė evidente come la prematura dipartita dell’amico abbia per Daryl il sapore amaro del rimorso: ricordiamo tutti le dinamiche instauratesi con Negan, il big boss dei Saviour che anche in questo episodio giocherà un ruolo determinante, e di come la seconda, efferata uccisione ad opera di Lucille sia stata causata proprio da un improvviso quanto prevedibile moto di ribellione del nostro protagonista. Non stupisce, pertanto, vedere delle dinamiche comportamentali diverse rispetto a quelle a cui eravamo abituati con questo personaggio tutto d’un pezzo: pur mantenendo la sua natura di inflessibile lupo solitario assistiamo, quantomeno nelle fasi iniziali della sua prigionia, ad una rassegnazione pressoché totale alle torture inflitte da Dwight, terzo uomo cardine della puntata.

The walking dead 7x03 the cell recensione

Sebbene una dovuta nota di merito vada all’eccellente Norman Reedus, che con precisione millimetrica riesce nell’intento di rappresentare a tutto tondo un personaggio tormentato e al contempo senza speranza, non è a lui che sono dedicate le parti più interessanti dell’episodio: in The Cell ci viene infatti presentato un primo assaggio delle dinamiche interne dell’avamposto dei Saviour, facendone emergere degli aspetti, se possibile, ancora più inquietanti.
Nel corso della sesta stagione, difatti, questa comunità è sempre stata rappresentata secondo stilemi non particolarmente originali e solamente abbozzati – del resto, non si sentiva ancora la necessità di ulteriori pprofondimenti – ma almeno due delle loro caratteristiche fondamentali si erano indubbiamente già palesate con forza: i Saviour sembravano nemici spietati ma, soprattutto, coesi.

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Se in merito al carattere dispotico e spietato che costituisce il punto di forza dei Saviour non emerge alcun dubbio – complice anche il maestro Negan che in questo senso non ha davvero rivali nell’universo di The Walking Dead con i suoi modi esagerati e volutamente sopra le righe – in The Cell si insinua qualche perplessità sulla coesione dell’intero gruppo, costituito da persone che, più che dimostrare un senso di appartenenza alla comunità, sembrano dominate dalla paura del loro leader e dalla consapevolezza di non poter trovare alcun altro posto nel mondo.

La struggente storia di Dwight – ora tirapiedi e fedele braccio destro di Negan che abbiamo imparato a disprezzare nel corso della stagione precedente – è proprio emblematica di questo rapporto malsano instauratosi fra il leader e i suoi sottoposti: ribellatosi inizialmente alle regole della comunità, è stato soggiogato mentalmente e fisicamente, e colpito nei propri affetti ad un livello tale da annullare ogni possibile volontà di sovversione. Non è mai facile portare lo spettatore ad empatizzare con una figura antagonistica di questo tipo, ma un background che porta a giustificare le azioni di quest’uomo – un vero e proprio Walking Dead, a modo suo, vittima delle circostanze senza alcuna possibilità di redenzione – è una piacevole sorpresa, un percorso evolutivo che per ora è stato negato anche allo stesso Negan, un cattivo tout court senza alcuna apparenti motivazioni alla base dei propri comportamenti.

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L’identificazione di ogni singolo membro della comunità nella figura del proprio leader (“I am Negan” ripetuto ossessivamente durante il fallito tentativo di fuga di Daryl mette davvero i brividi) rafforza ulteriormente questo concetto di annullamento della personalità, circostanza che fortunatamente non avviene con il nostro protagonista che, in quello che rappresenta l’unico vero spiraglio di ribellione in una situazione di sottomissione totale, rifiuta con forza questo concetto, attirandosi inspiegabilmente la simpatia di Negan. Sicuramente ha in serbo qualcosa per l’uomo, il che non è necessariamente un bene, ma con tutta probabilità dovremo attendere diversi episodi per sapere di cosa si tratta.

La puntata rappresenta indubbiamente un passo avanti rispetto alla precedente The Well, che risultava ancora troppo ancorata al vecchio corso di The Walking Dead senza riuscire a liberare il proprio potenziale narrativo. La regia, il montaggio ossessivamente claustrofobico e l’interpretazione del cast danno il loro contributo alla riuscita dell’episodio, ancora molto lontano dalle vette raggiunte dalla premiere – ma, del resto, non è questo che ci si aspetta da una serie che fa della costruzione lenta del pathos il proprio marchio di fabbrica – ma indubbiamente apprezzabile. Il voto è di tre porcamiseria e mezzo.

3.5

 

Qualche dubbio permane, volgendo lo sguardo al lungo termine, in merito alla struttura “a camera stagna” dei singoli episodi, che approfondiscono di volta in volta singoli aspetti della narrazione, comportando l’alternanza di episodi riusciti (come questo The Cell), ad altri assolutamente dimenticabili che minano il buon risultato complessivo. L’anno scorso, questa modalità contribuì ad affossare diverse parti della stagione, la speranza è che quest’anno il character developement e la storia di fondo – c’è da ammetterlo, decisamente più avvincente – contribuiscano ad evitare il disastro.

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