The Walking Dead7×11 Hostiles and Calamities

Torniamo da Negan e dai Saviors, focalizzandoci sulle storie di Eugene e Dwight e il loro rapporto col villain della stagione. Una battaglia morale avviene nelle loro menti, e la fedeltà di entrambi vacilla pericolosamente.

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Era dall’11 dicembre 2016 che Negan era ormai sparito. L’avevamo lasciato sorridente come un bambino dopo aver brutalmente sbudellato l’infido Spencer. Con lui avevamo anche abbandonato quella sana dose di ansia e paura che negli ultimi episodi di The Walking Dead sono totalmente mancate. In Hostiles and Calamities il nostro (anti) eroe ritorna finalmente in scena con quella boria da sempre allegro bullo di provincia la cui assenza piano piano ci stava asfissiando.

7x11 the walking dead hostiles and calamities

L’undicesimo episodio riavvolge la fabula al momento seguente l’evasione di Daryl e all’arrivo di Eugene al Santuario il quale, come si ricorderà, era stato sequestrato dai Saviors in quanto artefice del proiettile che per poco non aveva ammazzato Negan.

L’episodio si concentra da un lato sul comportamento che assumerebbe un ipotetico Sheldon Cooper – con meno OCD – semmai fosse rapito durante un apocalisse zombie da un gruppo di bulli che vorrebbe utilizzare le sue conoscenze belliche, dall’altro sulla vita di Dwight, il povero ragazzo sfigurato e abbandonato dalla sua auspicata anima gemella complice della fuga di Daryl.

La puntata, non fosse per il benefico fatto di staccarsi dalle appiccicose vicende della compagnia di Alexandria, lo si considererebbe a tutti gli effetti il terzo episodio interlocutorio di una seconda parte di stagione che non riesce a essere incisiva. Tuttavia, forse perché davvero saturi del resto delle storie, Hostiles and Calamities riesce a ritagliarsi uno spazio di originalità dal resto della stagione. Infatti, seppur confezionato tramite topos già corsi e ricorsi (il bizzarro comportamento di Eugene, l’ambiguo carattere di Negan, il dramma di Dwight), il racconto riesce a stimolare la nostra curiosità, rinvigorendo speranze che dall’11 dicembre scorso sembravano essersi atrofizzate.

Forza e fulcro dell’episodio, per una volta, sono infatti rappresentati non da ciò che vediamo in scena, ma da quello che invece la scena vuole mascherare, ossia dal sottotesto. Difatti, a venire indagate sono le relazioni che s’instaurano fra i due protagonisti, Eugene e Dwight, e le nuove circostanze in cui si ritrovano.

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Il «sapientone» dal capello strano, al contrario di quanto lui stesso si fosse immaginato, viene accolto e riverito dai Saviors, che vogliono sfruttare le sue capacità tecnico-scientifiche. Per questo motivo gli viene messa a disposizione una camera attrezzata d’ogni utile e soprattutto, cosa rara in tempi di miseria, d’ogni inutile: come un televisore e un videogioco, oggetti di cui proprio non si riesce a fare a meno per caratterizzare lo stereotipo del nerd. Così come, del resto, costituisce stereotipo il piccolo gruppo di mogli di Negan a cui Eugene prontamente preferisce dei cetriolini sottaceto.

Cetriolini e videogiochi, nonché la messa a disposizione d’ogni sorta di elemento, strumento e laboratorio per far divertire il piccolo scienziato, bastano, a quanto pare, a convincerlo di non essere Eugene, ma di essere Negan e di esserlo sempre stato.

Eugene è la personificazione del concetto di omeostasi per cui un organismo riesce ad adattarsi ai cambiamenti esterni (e/o interni) grazie a un processo di autoregolazione che lo porta a sopravvivere. Se vogliamo usare altri aggettivi, si può parlare di camaleontismo, trasformismo, codardia, a seconda del grado di immoralità che uno vuole infondere nel soggetto. Eugene stesso assume però un che di Nietzschiano nel suo modo di dichiararsi fedele a Negan che trasla il concetto di omeostasi dal biologico-morale addirittura all’ontologico: ossia al dilemma di essere o non essere e al «diventa ciò che sei».

Pare, e ribadisco il «pare», che Eugenie abbia finalmente capito chi sia, o meglio, chi sia sempre stato: un brillante cervello che può essere messo al servizio di chiunque per scopi di mera e personale sopravvivenza. Lui è un individuo extra-morale, al di là del bene e del male perché in fondo, secondo il suo ragionamento, Negan e Rick non si differenziano poi così tanto, anzi: le efferatezze del primo sono una reazione al subdolo attentato del secondo che ha impunemente ucciso nel sonno una trentina di indifesi Saviors. Fisica elementare: ad ogni azione corrisponde una reazione, così è la vita.

A lui non interessa più prendere partito, perché lui sa che uno scontro di civiltà non si fonda bugiardamente sulla dialettica bene/male o giusto/ingiusto, ma su una scientifica collisione di forze che a lui piace descrivere piuttosto in termini fisici che etici. Ecco dunque che l’uomo apolitico, apolide e asociale preferisce vendere la sua coscienza storica per un barattolo di cetrioli piuttosto che fare i conti con i propri sentimenti, le proprie relazioni e la propria umanità.

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Dwight è invece indubbiamente il personaggio più affascinante della stagione, l’unico che possiede ancora un briciolo di indefinitezza e perciò quel senso di agnizione che gli altri personaggi di The Walking Dead hanno perso. Dwight è per molti versi paragonabile a Daryl, tant’è che con il rubargli tutti gli oggetti (moto, balestra, giacca) finisce col diventarne una sorta di doppione. Le somiglianze con la sua controparte di Alexandria sono peraltro evidenti anche a livello di personalità: entrambi fedeli alfieri dei rispettivi «padroni», entrambi legati a persone che invece cozzano con le loro decisioni (Merle Dixon da una parte, Sherry dall’altra), entrambi alla ricerca di redenzione (che Daryl, a differenza sua, ha da lungo tempo trovato).

Tra le righe della lettera di Sherry, s’intuisce perciò che il liberare Daryl per lei riveste un significato simbolico: dare una possibilità alla parte «buona» e realizzata di Dwight, quella parte di cui la donna un tempo si era innamorata.

You didn’t wanna live in that world and I made you. I did what I did because I didn’t want you to die. But now you’ve killed and you become everything you didn’t wanna be. And it’s my fault. You were better than me, most people are. I let Daryl go because he reminded you who you used to be and I wanna let you forget.

Ora che facciamo caso a queste dinamiche potremmo anche interpretare il suo volto, sfigurato a metà, come un simbolo ulteriore della sua schisi psicologica: un Double Face che, irrimediabilmente incastrato in due anime, affida il suo potere decisionale a un’autorità esterna: non al lancio di una monetina, ma alla volontà di Negan.

Oltre alla ricerca di una collocazione esistenziale, ciò che accomuna Dwight e Eugene, e che li differenzia dalle loro rispettive controparti (Daryl e Padre Gabriel), è la mancanza di emotività (come ci suggerisce lo stesso Negan). In due modi diversi entrambi sembrano infatti costituirsi di una glaciale apatia che fa di loro più strumenti che esseri umani e che per questo motivo li rende perfetti per stare con Negan piuttosto che con Rick, che invece tratta gli altri come individui dotati di un’anima e non come pezzi di carne a cui assegnare un numero e una funzione da svolgere.

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Tuttavia, presumibilmente per motivi narrativi, l’episodio non sembra definire in toto il collocamento dei due personaggi, lasciandoli galleggiare in uno stato di placida ambiguità. Lo dico anche se Eugene mi sembra sentirsi davvero a suo agio nei panni di un potenziale Josef Mengele, quando nell’ultima scena lo vediamo dare ordini con un tono arrogante da piccolo gerarca nazista.

Staremo a vedere che peso assumeranno le parole e la scomparsa di Sherry nei confronti di Dwight e se, magari proprio durante lo scontro decisivo, non deciderà di immolarsi per la causa di Rick e compagni, per ricordarsi nell’estremo sacrificio che una volta anche lui era stato «buono» ed era stato amato da qualcuno. Allo stesso modo staremo a vedere come si comporterà Eugene quando ritroverà Rosita, l’unica sua vera compagna di viaggio e amica in questa apocalisse.

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