True DetectiveSeason 3: un piccolo passo in avanti per i creatori di True Detective

Season Recap La terza stagione di True Detective regala sicuramente qualche emozione in più rispetto alla seconda, ma c'è ancora tanta strada da fare.

6.7

Dopo quattro anni di attesa, True Detective è tornato. Dopo una prima stagione che si fa ricordare e una seconda da dimenticare, questi nuovi otto episodi ci hanno fatto ritornare indietro nel tempo ai bei tempi andati di Rust Cohle e Marty Hart, in quella tetra campagna americana dove sembrano nascondersi killer la cui malvagità non è nemmeno immaginabile. Ci ha fatto sentire le stesse sensazioni di malessere e ci ha sconvolti con la sua pungente schiettezza… ma solo per la prima metà. I creatori di True Detective sono così abili a creare suspence quasi quanto lo sono a distruggerla.

Dopo la delusione della seconda stagione, che nonostante il cast d’eccezione non è riuscita a mantenere alto il nome della serie – anzi, delle due l’ha fatto sprofondare più in basso, i produttori hanno deciso di fare un passo indietro e di ispirarsi alla prima stagione, cercando di riutilizzare quella formula magica che l’aveva resa così indimenticabile. Addio all’atmosfera urbana e losangelina per far posto a paesini sperduti in Arkansas, stato a confine con la Louisiana, ambientazione della prima stagione. E diamo il benvenuto ai Rust e Marty 2.0, Wayne Hays e Roland Wes, due poliziotti dell’Arkansas State Police alle prese con un caso che segnerà per sempre la loro vita: due bambini, Will e Julie Purcell, escono in bicicletta per visitare un amico di scuola ma non tornano mai a casa dai genitori. Will è trovato morto in una grotta qualche tempo dopo la sparizione, ma della sorella nessuna traccia.

Nella prima stagione, lo spettatore seguiva la trama attraverso una serie di flashback che avevano come punto di partenza un interrogatorio fatto ai due poliziotti ben 17 anni dopo l’investigazione: nella terza  troviamo un concetto molto simile, ma portato al livello successivo. Gli avvenimenti dell’investigazione originale avvenuta nel 1980 sono raccontati attraverso due diversi interrogatori a Wayne Hays: il primo avvenuto nel 1990, organizzato dalla polizia in luce di nuove scoperte collegate allo stesso caso Purcell, e il secondo nel 2015, a ben 35 anni dall’investigazione originale, quando Hays viene intervistato da un programma televisivo di cronaca.

La trama si sviluppa, quindi, su tre linee temporali diverse ed è importante sottolineare come una delle poche cose che ci aiuta a discernere in quale anno si svolgono le scene sia il taglio di capelli dei personaggi (tra l’altro proprio brutti negli anni ’80) e le rughe sul viso. Questo è uno dei vari espedienti narrativi più o meno banali presenti all’interno di tutta la stagione, quasi come se avessero cercato di ricreare quell’atmosfera che aveva reso la prima così avvincente, ma rendendola al tempo stesso troppo complessa e facendo degli scivoloni di banalità inserendo elementi per facilitarne la comprensibilità.

Questo è uno dei vari espedienti narrativi più o meno banali presenti all’interno di tutta la stagione, quasi come se avessero cercato di ricreare quell’atmosfera che aveva reso la prima così avvincente, ma rendendola al tempo stesso troppo complessa

Ed è questo che effettivamente lascia l’amaro in bocca, perché nella prima stagione la trama era, sì, complessa ma intoccabile, mai mediocre e manteneva sempre accesa la curiosità dell spettatore: nella terza questo accade solo nei primi quattro episodi. All’inizio, la trama è sempre più avvincente e questo climax culmina nella sparatoria estremamente cruenta alla fine del quarto episodio (paragonabile, ma che al tempo stesso non è nulla in confronto alle ultime scene della 1×04), ma la seconda parte delude per il suo estremo realismo.

Lo spettatore stesso si ritrova vittima del fatto che il caso Purcell non verrà mai completamente risolto, e se da una parte questo è sinonimo di realismo – quanti casi al mondo non sono mai stati risolti? – dall’altra dà vita a una trama che sotto sotto è troppo piatta e che manca proprio di quelle scene climatiche e di suspence che erano alla base della prima stagione. Come, ad esempio, una delle ultime, deludenti, scene dell’ultima puntata, quando i due anziani Hays e Wes scoprono finalmente cos’era successo a Julie 35 anni prima: il mistero di otto episodi raccontato da alcune immagini accompagnate da un racconto fuori campo di uno dei personaggi.

Tutto lì, srotolato davanti agli occhi dello spettatore nel giro di tre minuti: nulla in confronto alle ultime scene mozzafiato della prima stagione.

In più, la trama si concentra su altri avvenimenti paralleli all’investigazione, come la vita privata di Hays e la sua relazione con l’amata moglie e figli. Questa è stata in realtà un’idea ponderata dai creatori, i quali hanno deciso di porre più attenzione su altri aspetti della vita del protagonista invece che sull’indagine in sé. Per questo motivo, nella trama ci sono molti elementi che non sono stati effettivamente sfruttati al massimo delle loro possibilità, come l’indagine dell’intervistatrice del 2015: cercando di sorvolare sul fatto che un’intervistatrice di cronaca sembra aver scoperto quasi più indizi di Hays e Wes stessi, uno degli elementi più interessanti su cui fa luce è un presunto collegamento tra il caso Purcell e un giro di tratta di minori da parte di un gruppo di pedofili del quale avrebbe fatto parte lo stesso serial killer della prima stagione; l’intervistatrice mostra addirittura a Hays un articolo di giornale dove compare la foto di Cohle e Hart.

La trama sarebbe stata sicuramente più avvincente se questo collegamento fosse stato veritiero: sfortunatamente, però, tutto si rivela essere solamente una congettura un po’ forzata dell’intervistatrice stessa.

La terza stagione ha semplicemente un focus molto diverso dalla prima e vuole affrontare temi differenti, primo fra tutti l’idea di famiglia, da sempre ancora di salvezza di Hays. Grazie alla magistrale interpretazione di Mahershala Ali (e c’era anche da aspettarselo, dopo i due Oscar vinti), Hays si rivela una figura completamente differente dai precedenti poliziotti di True Detective: trova nella famiglia e nella persona amata la sicurezza e il coraggio necessari per cercare di liberarsi da quella forza autodistruttiva che lo ha sempre guidato nel corso della sua vita e nella sua carriera lavorativa.

È solo grazie al senso di protezione per la sua famiglia che nel 1990 decide di abbandonare la polizia e non continuare la ricerca di Julie, che avrebbe portato conseguenze possibilmente fatali. Hays è, probabilmente, uno dei personaggi più “buoni” di tutte e tre le stagioni proprio perché non si lascia andare a quella forza distruttrice che sembra essere l’essenza di ogni essere umano, come True Detective ha sempre sottolineato nel corso delle stagioni. Al contrario, si redime grazie all’amore per la sua famiglia.

Ma è veramente questo quello che ci si aspettava? Da quando in qua i personaggi di True Detective sono buoni?

La maledizione di True Detective è proprio che la prima è stata una stagione con il botto, e tutte le successive vivono nella sua ombra. Questa terza stagione avrebbe sicuramente avuto più impatto se creata come serie a sé, completamente distaccata dal nome True Detective. Ma non funziona se ogni volta che si vede Mahershala Ali si vorrebbe avere davanti Matthew McConaughey.

  • 6.5/10
    Storia - 6.5/10
  • 7.5/10
    Tecnica - 7.5/10
  • 6/10
    Emozione - 6/10
6.7/10

Summary

La terza stagione di True Detective è sicuramente migliore della seconda, ma alcune scelte narrative causano una storyline avvincente solo nei primi episodi. E le speranze di avere una stagione ai livelli della prima iniziano a scemare.

Porcamiseria

6.7

La terza stagione di True Detective è sicuramente migliore della seconda, ma alcune scelte narrative causano una storyline avvincente solo nei primi episodi. E le speranze di avere una stagione ai livelli della prima iniziano a scemare.

Storia 6.5 Tecnica 7.5 Emozione 6
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